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L’esaltazione dei gregari al Giro d’Italia

di | 2021-06-04T21:40:17+02:00 6-6-2021 6:00|Sezione 1, Sport|0 Commenti

PERUGIA – Lo sport in genere, e il ciclismo in particolare, rappresentano spesso un grande insegnamento di vita. Per i giovani e per i meno giovani. Prendete il Giro d’Italia appena concluso e vedrete come abbia innalzato, come non mai, il ruolo dei gregari, dei paria della disciplina del pedale. Degli ultimi, insomma. Un sorta di inno agli sconosciuti, una celebrazione di quelli che soltanto eccezionalmente finiscono davanti ad una telecamera o il cui nome non campeggia mai sui titoli dei giornali, un peana dedicato a coloro che lavorano – pardon, pedalano – di brutto e poi, dopo aver tirato la volata ai loro capitani per chilometri e chilometri, sulle salite più ardue, lungo le discese più insidiose, nelle pianure monotone, senza fine apparente, sotto il sole cocente o sferzati dalla pioggia battente, si fanno inghiottire dal gruppo e spariscono nel bel mezzo dei colori dei caschi e delle maglie, fino a rendersi del tutto anonimi. Svaniscono, letteralmente.

Damiano Caruso

Nessuno, o pochissimi, ne rammentano i nomi. Moderni iloti, come gli oscuri contadini di Sparta, al servizio della classe militare, la più ricca, la più onorata, la più famosa. La corsa in rosa di quest’anno, invece, ha intonato una sorta di salmo, di elogio sincero e meritato dei gregari, a cominciare da Damiano Caruso, 33 anni, una vita sportiva con rari lampi. Il siciliano di Punta Secca, nel ragusano, il set del commissario Montalbano – il cui biglietto da visita, fino ad oggi, era stato il lavoro del padre (componente della scorta di Giovanni Falcone, il martire antimafia) – ha riscattato d’un colpo la sua vita oscura, da… mediano, vincendo l’ultima tappa in salita (in solitaria) e piazzandosi al secondo posto della classifica generale. All’inizio della manifestazione Caruso – termine che significa “ragazzo lavoratore nei campi o nelle miniere di zolfo” – aveva il compito di fare lo “scudiero” dei due capitani della sua squadra e, invece, tappa dopo tappa, ha messo il timbro, da leader, sulla corsa e, forse, riuscirà a dare un salto di qualità anche alla parte finale della sua carriera.

Un premio, se non altro, per quel gesto tanto semplice quanto indimenticabile – una pacca sulla spalla – al compagno che gli aveva fatto strada e tenuto il ritmo fino a pochi chilometri dall’arrivo. Tanto più significativo, quel tocco, quella carezza, perché compiuto da chi, quel tipo di impegno, lo aveva svolto e sbrigato per tante e lunghe stagioni. ”Beati gli ultimi, perché saranno i primi” recita il versetto del ”discorso della montagna”, riferito alla vita ultraterrena, ma che nel Giro d’Italia, si è realizzato in terra. Per Damiano, ma anche per tanti altri, come Jonathan Martinez, il colombiano, sesto in classifica, fedele scudiero del vincitore della maglia rosa, Egan Bernal, pure lui, fino ad un paio di anni fa, gregario.

A questo ceto ciclistico Gianni Rodari aveva dedicato alcuni versi: “Filastrocca del gregario/ corridore proletario/ che ai campioni di mestiere/ deve far da cameriere/ e sul piatto, senza gloria/ serve loro la vittoria”.

Vincenzo Nibali

La corsa ciclistica, da sport per chi lo pratica o da passione o divertimento per chi lo segue, si è trasformata in un insegnamento sulla dignità del lavoro. Di quello dei grandi, di quanti cioè ottengono i risultati, economici o di immagine, i campioni, insomma, ma anche di tutti coloro – come i gregari o come i “monsù travet”, spesso irrisi – che svolgono la loro attività, in qualsiasi campo, con rigore, con lealtà, con correttezza. Che quasi sempre rimangono dietro le quinte, nascosti in un cono d’ombra ed invisibili, ma che, di tanto in tanto, ricevono la giusta mercede per la loro attività.

Un’altra lezione, indimenticabile, viene invece da un campione, Vincenzo Nibali, 36 anni, da tre lustri ai vertici del ciclismo italiano (vincitore della Vuelta, del Tour, del Giro d’Italia, per due volte), tartassato, ma non piegato dai venti contrari (leggi infortuni). Arrivato al via della corsa con i postumi di una frattura al polso, non ha potuto brillare come avrebbe voluto e come avrebbe meritato, ma si è ritagliato comunque, un ruolo di ”maitre à penser”, sia pure suo malgrado, senza volerlo. Dopo l’ultimo infortunio, una caduta, con conseguenze non gravi, ma dolorose (trauma alle costole), nessuno avrebbe potuto criticarlo se avesse gettato la spugna, se si fosse ritirato. Lui, invece, rimontato sul sellino della bici, ha sopportato stoicamente le fitte e i malanni ed ha concluso quella tappa, anzi ha proseguito la gara ed è arrivato sino al traguardo di Milano. Per onorare il Giro e se stesso. Solo per questo, al di là ed al di sopra dei suoi successi passati, si è guadagnato il rispetto. E tra quello degli altri, per quanto possa valere, anche il mio.

Elio Clero Bertoldi

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