ROMA – Sono compagne di vita, testimoni silenziose, amiche fedeli, sostenitrici di sfide, talvolta ardue al punto da oltrepassare il limite umano. E proprio per queste caratteristiche Paolo Piccolella ha voluto dedicare proprio a loro il suo “La parola alle montagne” (ed. Affiori, marzo 2025). Il titolo accattivante del prezioso volumetto farebbe pensare che siano loro – sì, le montagne – a parlare. Sono, invece, filosofi e pensatori di ieri e di oggi a interpellarle in un immaginario, profondo, rapporto epistolare.
Sebbene ciò non sia stato mai sottolineato, questo tema ha ispirato i filosofi di tutti i tempi nella visione complessiva della vita, del mondo, e per questo molti di loro ne hanno parlato, ognuno a suo modo. Piccolella, che pratica anche lui la speculazione come scrittore e da docente, costruisce così venti discorsi (definiti nel sottotitolo: “lettere possibili dei filosofi ai loro monti”), con cui passa in rassegna la storia del pensiero attraverso il rapporto che ogni filosofo o scrittore o scienziato ha avuto con le vette. A ciascuno la sua: l’Olimpo per Aristotele, il Monte Corno per Johannes de Ripa, i Sibillini per Leopardi, il Bernina per Nietzsche e così via, fino ai più recenti. Di ogni discorso Piccolella non inventa nulla: le parole che i filosofi rivolgono alle rispettive montagne sono quelle che “avrebbero” potuto realmente dire stante il loro provato rapporto con esse e le loro idee.

Paolo Piccolella
E così, anche se alcuni di questi – Kant e Leopardi per esempio – non sono mai saliti su una cima e lo sappiamo per certo, sono però riusciti ad intuirvi quel confine tra finito e infinito, il famoso limite, dilemma su cui da sempre i pensatori si pongono domande. Altri, come Rousseau o Nietzsche, parlano con le loro vette come se fossero intime confidenti perché la montagna, imperturbabile, vive, vigila, osserva, nasconde o esprime. E tutto questo suo lavorìo un filosofo non può non vederlo. Nel tempo, a seconda dei momenti, la montagna è stata la via per l’ascesi e la trascendenza, oppure una tessitrice di relazioni. Nella storia del pensiero, sta di fatto che essa è stata una presenza costante anche se sempre solo “intravista” come sfondo o luogo magico, misterioso, oltre il quale conducesse l’imperativo etico di immaginare, andare a cercare conoscenza. In ogni caso e in ogni epoca essa è stata la via per cercare – e trovare – il senso della vita.
Paolo Piccolella, ora, con questo libro vuole rendere giustizia a quell’ “incantesimo – scrive lui stesso nell’introduzione – che i monti sanno esercitare su di noi”. Per la prima volta, con questa operetta, il tema diventa centrale. Il filosofo-scrittore scrive a nome dei suoi maestri guidato, oltre che da una folta documentazione e molto studio, da due passioni che convivono in lui: l’amore per la montagna che lo porta a scalare spesso le vette, e la filosofia. Quest’ultima gli conferisce anche un ruolo sociale, trattandosi del suo lavoro. Un ruolo che è di responsabilità personale verso la società e quelle generazioni che vede avvicendarsi anno dopo anno nell’insegnamento ma anche verso la natura nel suo rapporto con l’uomo. E qui il filosofo non si distingue più dallo scalatore ma neanche dallo scrittore e raffinato interprete dei nostri tempi che conosce bene l’importanza delle relazioni umane, dell’impegno civile, dell’etica.
Con questo libro Piccolella restituisce alla montagna il ruolo di passaggio necessario dell’esistenza, di simbolo del tempo che scorre e della natura creatrice, della fatica di vivere, dell’ambizione, della solitudine terapeutica, dell’introspezione. La bellezza che scaturisce dalle 120 pagine del libro nasce anche dall’emergere, tra tanti maestri del pensiero (il cui rapporto con la montagna è provato da una ricca bibliografia), della personalità dell’autore.
Un autoritratto che si definisce man mano che la scrittura snella e pulita definisce i concetti fondamentali – spesso complessi – del pensiero occidentale visto dall’alto o dal basso, a seconda di come ci si rapporti con la montagna.
Gloria Zarletti
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