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Le mafie in Umbria arrivano da lontano

di | 2020-03-06T13:01:23+01:00 8-3-2020 6:35|Attualità, Sezione 8|2 Comments

PERUGIA – Le infiltrazioni in Umbria della criminalità organizzata che la magistratura sta portando alla luce (l’operazione più recente, di pochi giorni fa, si chiama  “Eufemia“ ed è stata curata dalla Dda di Catanzaro), non sono soltanto dell’ultimo periodo, ma vengono da lontano. Molto lontano. Più di quanto scrivesse la Dda qualche anno fa: “Le mafie, sebbene la testa delle organizzazioni rimanga nelle regioni d’origine (Sicilia, Calabria, Campania e Puglia), controllano e dirigono, secondo un disegno unitario, molteplici business criminali sempre più interdipendenti e con profonde relazioni con la zona grigia di varie regioni. Sempre più affondano le radici anche nei gangli più nascosti della pubblica amministrazione e dell’imprenditoria, con un intreccio profondo tra mafia e corruzione che impone, a tutti i livelli istituzionali e della società civile, un impegno sempre maggiore”.

Il piccolo Augusto De Megni appena liberato dopo il sequestro

Il pericolo, insomma, arriva anche dai ”colletti bianchi”, cioè professionisti di vari settori e amministratori pubblici, che, per squallido amore di denaro (“auri sacra fames”), facilitano gli ”ingressi” dei gruppi malavitosi. Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita – senza contare la mafia russa, quella cinese, quella albanese, quella nigeriana e quella sudamericana, che direttamente o indirettamente negli ultimi tempi hanno operato, piuttosto alacremente, in Umbria – vantano una “presenza” e hanno mandato, quanto meno, “segnali” ormai da decenni.

Ci sono esperti che ritengono che tutto sia cominciato, negli anni Sessanta-Settanta, con l’arrivo dei soggiornanti obbligati: un Mammoliti nell’Eugubino-Gualdese, il capobastone calabrese Egidio Muraca a Perugia, addirittura Stefano Bontade, “il principe di Villagrazia”, capo di Cosa Nostra fino alla sua uccisione (ad opera dei “viddani” di Riina e Provenzano) in soggiorno obbligato a Cannara, dove conduceva una bella vita e tanti altri di “blasone” minore, ma non certo di pericolosità sociale, in varie zone a nord e a sud delle due province.

La situazione si è poi aggravata, negli anni Ottanta, con la costruzione del carcere di Maiano di Spoleto (che ha ospitato, via via, personaggi di spicco siciliani, campani, calabresi, pugliesi) e con l’apertura della sezione speciale nella casa di reclusione di Sabbione di Terni. Perché un carcere significa presenze, movimenti, legami sul territorio di familiari e amici, sfociati “in loco” talvolta in rapporti economici, talaltra in connivenze. Senza contare l’immigrazione di clan in fuga dalle loro terre di origine per agghiaccianti e sanguinosissime faide (come i Facchineri e i Condello, calabresi, insediatisi in Alta Val Tiberina o alcuni personaggi siciliani, più o meno insospettabili, nel Ternano). Infine l’espansione “commerciale”, la ricerca cioè di territori nuovi perché le mafie, che fanno commercio illegale, si comportano esattamente come le aziende sane e cercano quindi di allargare le loro sfere di influenza in ogni dove.

Il boss Stefano Bontade

E’ vero, racket e pizzo, azioni criminali che connotano, nelle terre di origine delle cosche, il fenomeno mafioso, non sono stati segnalati, almeno in maniera continuativa e costante nelle nostre terre, ma le mani sulle città possono essere messe, più fruttuosamente, attraverso la corruzione e il riciclaggio di denaro, che non hanno riflessi evidenti e solari e non vengono percepite all’esterno (come l’acquisto di esercizi commerciali, magari con teste di legno oppure di terreni e aziende industriali e agricole). D’altro canto la mafia non innalza e fissa cartelli ai margini delle strade per indicare il percorso da seguire per trovarla e individuarla. Si muove, finché può, sottotraccia.

Di sicuro, tuttavia, si sono verificati sequestri (come quello dell’imprenditore Vittorio Garinei a Trestina) attribuiti, con sentenze definitive, a clan calabresi ben conosciuti; rapine a go-go messe a segno da bande mafiose (palermitane e catanesi), ‘ndranghetiste, camorriste e della Sacra corona unita; e persino omicidi.

Avvenuti in carcere (quello di Angelo La Barbera, nella clinica interna della casa di reclusione di Piazza Partigiani nel capoluogo umbro, rappresentò dell’inizio della “guerra di mafia” che spazzò via in Sicilia e a Palermo, tra l’81 e l’83, i “cittadini”, a favore dei “viddani” di Riina, Provenzano e loro sodali e quello di Ciro Ruoppo, camorrista di basso rango, punito con l’impiccagione nelle docce, sempre a Perugia, per aver parlato male, in piena guerra di camorra, di don Raffaele Cutolo e bene di uno dei nemici del “professore”, Luigi Giuliano, “‘o lione”, di Forcella, poi pentito), ma soprattutto in strada. Tra questi ultimi l’assassinio di Domenico Barbaro, un calabrese (tornato libero dopo una lunga detenzione) freddato a Bastia Umbra a colpi di lupara nella sua vigna da un commando arrivato su un’auto rossa e poi sparito nel nulla; Luigi Castiglione, anche lui giovane calabrese, centrato da colpi di pistola all’Elce da quello che credeva un suo amico e che si era trasformato invece nel killer, inviato dai suoi nemici per saldare i conti di una lunga faida; e ancora Salvatore Conte, camorrista, morto ammazzato a pistolettate a Castel del Piano e poi seppellito, in fretta e furia, in un bosco tra Perugia e Gubbio per un “redde rationem” interno ad una banda formata da “pentiti”; l’omicidio, ancora irrisolto, dell’imprenditore calabrese Roberto Provenzano, raggiunto da un proiettile alla tempia nella sua casa di Ponte Felcino; la sparatoria di via della Scuola a Ponte San Giovanni dove rimasero a terra tre albanesi (uno morto, due in fin di vita, salvati dai chirurghi perugini), ad opera di un napoletano collegato alla camorra e rimasto latitante per anni in un paese alle falde del Vesuvio; il terribile omicidio per “incaprettamento” di un operaio ternano, Franco Fiocchi, trovato nel suo orto di Colleluna di Terni (omicidio del 2000, irrisolto); e poi l’agghiacciante strage di via del Macello (“nomen omen”) eseguito un commando sceso da Milano nel capoluogo umbro: sul terreno tre albanesi, riempiti letteralmente di piombo. Le vittime avevano appena seguito, in un bar, una partita del campionato di calcio. Altri omicidi portano poi firme ”indirette” della mafia perché consumati da soggetti, abitanti in Umbria, con quel tipo di mentalità.

L’imprenditore Soffiantini con  la moglie dopo la liberazione

Lunghissimo sarebbe ricordare una per una le operazioni contro il traffico di droga e delle “bianche” (le schiave del sesso), organizzato dalle varie mafie: basterà accennare a “Mamma cocaina”, una colombiana, che collegata al cartello di Calì faceva affluire fiumi di cocaina a Perugia; le incursioni della mafia russa (come nella vicenda Girasole I e II o come nel feroce omicidio a martellate di una splendida ragazza russa ribelle agli sfruttatori), albanese (operazione “Parigi” in via della Pallotta, droga ed armi), nigeriana (tratta delle bianche e cocaina) e nordafricana e persino di quella cinese (un sequestro di persona sull’asse Foligno-Bologna). Su tutte, clamorosa l’operazione Windsheare, un classico all’inverso: cinque insospettabili perugini, per rifarsi delle perdite nel gioco d’azzardo, arrivarono ad organizzare e concretizzare un traffico di cocaina purissima, con volo diretto dal Sud-America all’areoporto di Sant’Egidio. Un business che servì a rifornire niente di meno che i palermitani di Piazza del Gesù, gli ‘ndranghetisti di Gioiosa Ionica e la criminalità organizzata romana (collegata a sua volta con le famiglie mafiose di New York e Miami). Dal sud salivano a Perugia camion carichi di bestiame, che tornavano nel meridione con i loro “tesori” di droga. Un percorso all’inverso rispetto alle situazioni tradizionali, che hanno visto l’Umbria rifornita dai vari clan. Quindi lo sbarco, nel perugino, dei gruppi camorristici dei Casalesi e dei Fabbrocino, con le mani in pasta nel settore delle costruzioni.

La Sacra corona unita, infine, aveva assoldato alcuni perugini, affidando loro il lavoro sporco del trasporto di auto di lusso (anche Ferrari) rubate in Italia e riciclate nei Balcani e nei paesi dell’Est. Ad organizzare il traffico alcuni pentiti pugliesi, autori di doppio gioco (difesi dallo Stato per la loro collaborazione, continuavano, di soppiatto, a delinquere e di brutto). Più recentemente le attività delle cosche Farao-Marincola di Cirò (messe in luce dalle operazioni “Quarto passo“ e “Trolley-sotto traccia”) nel traffico della droga. Ma anche le cosche palermitane (clan Lo Cicchio-Piccolo) con acquisti di beni a Terni e la cosca di Carini a Foligno. Il clan dei Casalesi si è infiltrato nel settore edilizio (vedi operazione “Apogeo” a Ponte San Giovanni). A Terni si sono insediati, tramite teste di legno, il clan Schiavone, il clan Terracciano, il clan Gallo (operazione “Pandora“). Nelle stesse fasce di territorio hanno messo le mani uomini dei clan Farao, Morabito-Palamara-Bruzzaniti, dei Mazzaferro-Ierinò, degli Speranza-Palamara-Scriva. La Sacra Corona Unita, grazie al matrimonio di una sudamericana, di nome Gloria, con un esponente del gruppo malavitoso, aveva attivato negli anni Novanta un traffico di “neve”, senza intermediari, dai cartelli colombiani. Sempre in quegli anni una famiglia sudamericana, abitante a Perugia ma con attività pure nel Catanese, ordinava direttamente la droga dai narcos pagando la ”roba” con i proventi della prostituzione organizzata in varie città.

I boss della mafia Riina e Provenzano

Discorso a parte per l’Anonima sequestri Sarda che dagli anni Sessanta-Settanta ha avuto una decisa presenza in Umbria ed alla quale vanno addebitati omicidi (l’impiegato Mario Buttafuoco a Perugia, che forse aveva visto o saputo qualcosa di troppo; Lussorio Salaris a Città della Pieve, ammazzato da due latitanti; il carabiniere Donato Fezzuoglio, morto in un conflitto a fuoco durante una rapina ad Umbertide), colpi clamorosi a Perugia (nei supermercati) e in AltaValTiberina (ai furgoni blindati), oltre ad una serie di sequestri di persona (come i bambini Guido Freddi e Augusto De Megni, ma anche il sequestro Soffiantini ed altri) e alla presenza di diversi latitanti (quali Antonio Soru arrestato a San Venanzo o Mario Moro, ferito mortalmente in uno scontro a fuoco con la polizia).

 Pure la piccola Umbria, dunque, deve continuare a tenere la guardia alta, altrimenti rischia di tornare indietro di decenni quando le ”paranze” di rapinatori campani, calabresi, pugliesi, perfino siciliani, parlando al telefono tra di loro, progettavano rapine nelle banche umbre ”dove è facile entrare come in un negozio di frutta”, perché prive, all’epoca, di ogni minima sicurezza passiva.

Elio Clero Bertoldi
Nell’immagine di copertina, il supercarcere a Maiano di Spoleto

2 Commenti

  1. Fausto Cocciari 8 marzo 2020 at 10:19 - Reply

    Una bella e completa ricostruzione del percorso criminoso attuato dalle varie “mafie” in Umbria. Ci eravamo accorti che la nostra regione non era più “verde” (troppa edilizia, e di pessima qualità), né tantomeno “santa”, sia per i personaggi di importazione, sia per il generale scadimento del personale politico locale degli ultimi decenni. Questo tuo articolo ha il pregio di rimettere tutto in fila, aiutandoci, tutti, a formarci un’ opinione e a dare un senso a tante vicende che ci sono passate sotto il naso.

  2. Valeria 8 marzo 2020 at 15:55 - Reply

    Complimenti all’autore di quest’articolo. I miei complimenti da Avvocato ambientale.

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