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Nisida, un carcere nell’isola che c’è

di | 2019-07-28T06:22:46+02:00 28-7-2019 6:00|Attualità, Sezione 1|0 Commenti

NAPOLI – L’Istituto Penitenziale per Minori (I.P.M.) è collocato a Napoli su un’isola: “Nisida è un’isola e nessuno lo sa…” cantava Bennato che ben conosce la zona geografica che di per sé racchiude tutte le contraddizioni di questi controversi paese e città. A cominciare dall’Italsider, l’ecomostro a significare la brutalizzazione compiuta a Bagnoli neall’area dove prorompe la bellezza del golfo, nonostante tutto.  E lì l’isoletta di Nisida ospita il penitenziario per giovani dai 14 ai 25 anni con una sezione femminile (unica per tutto il Sud Italia) e una maschile; ragazzi e ragazze resosi colpevoli di reati che vanno dalla rapina fino all’omicidio; minori con una pena da scontare che li preclude alla libertà e li costringe ad osservare il mare da lontano. Un’isola legata alla terra ferma da una piccola striscia di cemento che l’incatena ad una città come Napoli che in un certo modo, ha tradito, non accogliendo in un’infanzia protetta questi figli senza appigli.

 A parlarne sono il direttore Gianluca Guida, l’educatore Paolo Spada, lo psicoterapeuta Padre Gennaro Pagano e Ciro un ragazzo che si è guadagnato, negli anni, una semidetenzione (articolo 21). Gli uditori: i ragazzi frequentanti un Master per esperto in educazione motoria e sportiva per l’inclusione sociale e la prevenzione al rischio dell’Università Parthenope di Napoli a cura della professoressa Maria Luisa Iavarone che, a prescindere dalle sue vicende personali, è stata da sempre sensibile alla prevenzione dei ragazzi a rischio come presidente dell’Associazione ARTUR (Adulti Responsabili per un Territorio Unito contro il Rischio).

Dalle prime parole di Paolo Spada, il responsabile degli educatori, e del direttore Guida si comprende da subito che, come direbbe De Crescenzo, sono uomini d’amore, perché esistono dei lavori che non possono prescindere dal metterci se stessi e il proprio cuore, sono dei missionari e la loro “mission” è proprio quella di cercare di ricucire una lacerazione tra il mondo culturale di questi ragazzi e il mondo del viver civile. Il tutto deve necessariamente passare attraverso un’alfabetizzazione emotiva, una consapevolezza ed attenzione del male arrecato a terzi, una sensibilità nel riconoscere se stessi e trovare le parole per esprimere il proprio malessere che li ha portati sulla via apparentemente più consona che l’ambiente dettava loro.

Quando la giustizia fa il suo corso e sentenzia gli anni da scontare in proporzione al reato, la società civile se ne libera mentalmente, che si gettino le chiavi o si usino le chiavi di cioccolato, c’è un delinquente in meno in circolazione; isolati in un’isola distaccata dalla città questi ragazzi intraprendono un percorso che almeno nelle intenzioni deve invece riportare ad una riabilitazione. Questo è quello che avviene in questo microcosmo sconosciuto ai più.

Attualmente circa 50 ragazzi, di cui 7 ragazze, vivono in uno spazio dettato da tempi cadenzati, con circa 70 operatori della polizia non in divisa. Un educatore ogni 10 minori presi in carico. Alle 7,30 si batte sulle sbarre, quasi una melodia, una consuetudine che nasce dal dover constatare se si fossero segate durante la notte e poi tante attività diversificate e laboratori, fino alla mezzanotte con il rito ripetuto del passaggio ritmato sulle sbarre. Niente cellulari, wi-fi, tante ore da impiegare per non impazzire. Contatto periodico con le famiglie: tre telefonate a settimana di 20 minuti l’una, tantissimo per un teenager di oggi che per natura non è loquace con i propri cari.

È un carcere a tutti gli effetti, ma che prevede un percorso a step, non sempre lineari, che auspicano un’autonomia di gestione crescente e di una conseguenziale qualità di relazione con l’adulto/educatore attraverso attività laboratoriali.

Azioni contenitive per una fase iniziale critica e in una seconda fase riempitiva di un vuoto imposto che a sorpresa, soprattutto per loro stessi, hanno spesso evidenziato abilità e propensioni di ognuno di loro. Laboratori di pasticceria, di rosticceria, friggitoria, percorsi formativi per pizzaioli con la cura al lievito madre; fanno anche produzione e vendita il cui ricavato va ai ragazzi stessi o per finanziare le attività. Alcuni, con permessi speciali, fanno catering in esterno. C’è chi, a fine pena, ha continuato l’attività di pizzaiolo con grande successo aprendo pizzerie in varie parti del mondo.

Ed ancora laboratori di ceramica, dell’arte presepiale, di teatro nella sua forma catartica di raccontare le proprie o altrui storie frutto di un laboratorio di scrittura creativa e autobiografica. E ancora lo sport con le sue regole e sana competizione e non il calcio che, sperimentato, riproponeva ruoli gerarchici di supremazia, invece il rugby, la pallavolo e il basket.

Un laboratorio in cui esponenti della politica, ma anche dello spettacolo o della cultura, si confrontano con gli ospiti di Nisida: per evitare la passerella mediatica chi viene si deve rendere disponibile ad uno spazio senza reti in cui i ragazzi sono liberi di esprimere le eventuali criticità. Sono esperienze forti e non tutti si sono dimostrati all’altezza del confronto.

Di fondo la scuola, quella fuori, resasi complice di una loro marginalizzazione, quella che non ha saputo alfabetizzarli, né ha dato i codici di accesso ad un vissuto differente. Loro che, nella maggior parte dei casi, sono stati studenti perfetti per la scuola di strada. A Nisida, obbligatoria per tutti. I più conseguono il diploma di licenza media, anche se la maggior emergenza resta l’alfabetizzazione emotiva. In questo specifico settore interviene Padre Gennaro Pagano che da psicologo mette in risalto quanto sia stato latitante il ruolo degli adulti per questi ragazzi, non solo i congiunti familiari, ma tutti noi di una società che non accoglie e speso etichetta e non perdona precludendo possibilità di reinserimento nella società.

Spesso questi ragazzi, pur avendo sperimentato un percorso formativo qualificante, a fine pena vengono reinseriti nel loro quartiere, ma con una fragilità in più: quella di aver acquisito un codice di comportamento (che non viene più riconosciuto) differente da quello assunto in precedenza.

A Napoli convivono due filoni culturali paralleli e non comunicanti tra loro, ognuno con i propri codici di linguaggio: quello che manca è una cerniera che unisca due mondi diametralmente opposti per modalità di vita, di valori, di intenti. Spesso la divisione non è nemmeno solo territoriale, c’è una convivenza di luoghi e di spazi ed un’infinita separazione di intenti.

Padre Gennaro, volontario e psicologo che da settembre sarà il cappellano a Nisida, è direttore di una fondazione del Centro educativo diocesano Regina Pacis per affrontare il disagio e la devianza in particolare per Nisida; da 5 anni si è aperta una comunità residenziale che prevede per i minori, proposti al magistrato dagli educatori, dopo un terzo della pena scontata, di essere trasferiti in comunità per continuare la pena, ma in maniera alternativa alle carceri. La comunità cerca di colmare un gap supportando l’inserimento di questi ragazzi dalla vita penitenziaria ad una nuova che non contenga deviazioni dalle norme del viver comune.

Manca una politica sociale adeguata se non per seguire la logica del brand del momento che dia visibilità con azioni mirate a zone di città slegate dal contesto circostante, senza una seria verifica meritocratica sugli effetti.

Ciro è un ragazzo da un’infanzia tormentata e non facile, orfano di padre all’età di 4 anni, uno di tre fratelli, la cui madre non riesce a tener testa a ragazzini che non conoscono una guida paterna se non la strada, la devianza; vivono a Secondigliano in case denominate “terzo mondo” che non lascia possibilità di riscatto. Ha 20 anni ed un amore, una ragazza di 16 anni a cui si aggrappa con tutta la sua disperazione tanto da mettere con lei in cantiere un figlio in una giornata concessa di libertà e in modo consapevole. La speranza di Ciro è riposta in questa nuova vita per la ricerca di un appiglio non avuto come figlio, per diventare padre responsabile solo per il fatto di averlo concepito. Nascerà a dicembre quando lui sarà ancora sull’isola, isolato da una neo-vita che già è destinata alla mancanza fisica del padre.

Dopo un percorso di introiezione di valori quali la non violenza, la cooperazione, l’alfabetizzazione emotiva,  bisogna restituire il soggetto alla sua comunità di origine in cui questi valori non sono riconosciuti come tali per cui il ragazzo sarà di nuovo un deviato rispetto al gruppo sociale d’appartenenza: questo è il vero dilemma racconta a fine lavori uno dei professori del Master Luigi Caramiello.

Quanti di questi ragazzi ce la faranno a dirottare la propria vita verso un bene che parta dal perdonare se stessi e coloro che non sono stati, per loro, adulti responsabili per evitare tanto dolore? Riuscirà Ciro ad essere un adulto responsabile per suo figlio essendo lui stesso ancora figlio bisognoso di un amore mai avuto? L’esito non scontato passa dalla passione di Paolo, Gianluca, Gennaro, degli educatori in formazione, e di tutti gli adulti di questa città se sapranno sostenere lo sguardo di Ciro e di suo figlio aprendo un dialogo costruttivo tra le culture della stessa città.

Angela Ristaldo

Nell’immagine di copertina, l’isola di Nisida con l’Istituto Penitenziale per Minori

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