//Il terribile dilemma tra salute e lavoro

Il terribile dilemma tra salute e lavoro

di | 2019-11-10T06:39:14+01:00 10-11-2019 6:41|Punto e Virgola|0 Commenti

Si può scegliere tra salute e lavoro? E ci può essere salute senza lavoro? O lavoro senza salute? Impossibile rispondere a queste domande senza lasciarsi prendere dall’ansia e dalla disperazione. La terribile crisi che in questi ultimi giorni sta attanagliando Taranto e il suo stabilimento siderurgico (il più grande d’Europa) esplode nelle sue mille contraddizioni alle quali si fa un’enorme fatica a dare risposte credibili e coerenti. Anzi, a dire tutta la verità, non esiste almeno per ora una soluzione logica che sia in grado di salvare i posti di lavoro (circa ventimila tra dipendenti diretti dell’ex Ilva e addetti dell’indotto) e di tutelare l’ambiente (e quindi la salute) di una città di circa 200mila abitanti e della sua provincia.

In sintesi i fatti. ArcelorMittal, il colosso franco – indiano (il più grande e importante al mondo) che gestisce le acciaierie ioniche, annuncia di volersene andare, contraddicendo in maniera clamorosa il piano industriale presentato meno di un anno fa. Sono cambiate – sostengono – le condizioni del mercato mondiale dell’acciaio, tanto che lo stabilimento di Taranto perde circa 2 milioni di euro al giorno. Nella decisione di mollare la presa non possono non aver avuto una qualche influenza due fatti: il primo riguarda il cosiddetto “scudo giudiziario”, il secondo la decisione della magistratura tarantina di chiudere l’altoforno 2 se non si fossero eseguiti alcuni importanti lavori di ammodernamento.

La copertura dei parchi minerari

Su quest’ultimo elemento, va spiegato che i commissari straordinari dell’ex Ilva si erano impegnati con i giudici a terminare i lavori entro i primi di dicembre di quest’anno: una data impossibile da rispettare per ragioni squisitamente tecniche. Sulla tutela penale (che riguarda il passato, non il presente e il futuro), va detto che è stata concessa e tolta per ben 4 volte: prima sì, poi no; poi ancora sì e infine definitivamente no con un voto espresso dal Senato una decina di giorni fa. Ma che razza di Paese siamo se non riusciamo ad essere seri e coerenti? Quello “scudo” era stato concesso senza problemi ad ex amministratori straordinari come Bondi e Gnudi, perché allora si fanno tante storie per ArcelorMittal? Una figura ignobile davanti al mondo intero che rafforza nella comunità economica internazionale il concetto che l’Italia non è affidabile.

Il management dell’azienda ha posto condizioni pesantissime per rientrare in gioco: 4 milioni di tonnellate di acciaio prodotto all’anno (a fronte dei quasi 7 e, in prospettiva, oltre 8 previsti dal piano industriale del 2018) e 5mila lavoratori dell’ex Ilva fuori dal ciclo produttivo (e quindi almeno altrettanti nell’indotto). Naturalmente, andrà reintrodotto lo “scudo penale”, anche se ufficialmente AM non lo ha chiesto, ma la voce che circola con insistenza è che sia stato proprio il voto del Senato a rappresentare la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Inutile sottolineare che circa 10mila persone senza lavoro in una provincia come quella di Taranto sarebbe una bomba sociale di proporzioni immani.

Ma c’è il problema della salute. A Taranto si muore per l’acciaio. I dati non ammettono repliche: l’incidenza dei casi di tumore (alcuni molto rari) è ben più alta che in ogni altra zona del Paese e forse del mondo intero. I venefici fumi dell’Ilva ammorbano la città e colpiscono duramente grandi e piccoli. Non si contano le vittime in questi anni: in migliaia sono morti per aver respirato aria inquinata. E’ cominciata ed è a buon punto la copertura dei cosiddetti “parchi minerari”, enormi distese a cielo aperto di materiale ferroso e non solo, necessario per alimentare gli altoforni. E’ un passo avanti, ma non basta perché dalle ciminiere dell’ex Ilva continuano ad uscire fumi e vapori altamente inquinanti. Servono filtri ultrasensibili per bloccare totalmente quelle polveri: ArcelorMittal stava cominciando a farlo. Qualche anno fa furono abbattute migliaia di pecore che avevano la sola colpa di aver brucato erba contenente diossina. Il Mar Piccolo dove era fiorente la mitilicoltura adesso è un deserto, nel senso che tutti i vivai di cozze sono stati trasferiti in altre zone del Mar Grande. Insomma il problema della tutela della salute esiste ed è sentitissimo in città.

C’è chi propone di chiudere l’acciaieria senza perdere ulteriormente tempo e di riqualificare la manodopera per bonificare l’enorme area da essa occupata, ma le ricadute occupazionali sarebbero comunque gravi. Altri pensano alla nazionalizzazione, ma ammesso che si trovino i soldi per mandare avanti l’azienda e per completare il programma di risanamento, ci sono esempi passati che fanno storcere il naso: basti pensare alla catastrofe Alitalia che è costata decine di miliardi di euro e che naviga tuttora in pessime acque, nonostante i continui interventi per cercare di farla risalire. Altri ancora pensano di portare ArcelorMittal in tribunale per una causa che si prospetta lunghissima e dall’esito tutt’altro che scontato: strada tortuosa che non risolve i problemi contingenti.

E allora come se ne esce? La risposta è una sola: bisogna conciliare salute e lavoro, chiunque sia a gestire l’impianto. Che comunque è obsoleto e bisognoso di profondi interventi strutturali. Peraltro va pure sottolineato che 60 anni fa, fu da folli costruire una fabbrica di quella portata (poi raddoppiata dopo circa un decennio) al confine con la città: una scelta insensata e ingiustificabile che i tarantini (a cominciare dai politici di ogni colore) accettarono in nome del lavoro e del benessere. E’ vero, l’acciaio ha dato a Taranto un periodo di insperata prosperità: i proprietari di immobili, per esempio, diventarono ricchi affittando le loro case ai trasfertisti che arrivavano da Genova o da Bagnoli. Ma quel periodo è finito da tempo. E soprattutto quelle insulse decisioni hanno distrutto un’agricoltura fiorente e ogni prospettiva di sviluppo turistico. Il Salento sta vivendo un autentico boom e dista appena qualche decina di chilometri in linea d’aria da Taranto… Così, tanto per dire.

Si continui pure a produrre acciaio (che vale l’1,4% del Pil nazionale), ma coniugandolo con la tutela dell’ambiente   e della salute dei cittadini. Non ci sono altre soluzioni: è un dualismo che ha prosperato per anni e che adesso va definitivamente sconfitto. Perché la crisi dell’acciaio è la crisi dell’Italia e della mancanza (per colpa di tutti, sia chiaro) di una decente politica industriale.

Buona domenica (soprattutto alla “mia” Taranto).

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