//I banchieri perugini? Colti, ricchi e risparmiosi

I banchieri perugini? Colti, ricchi e risparmiosi

di | 2019-03-17T10:26:44+01:00 17-3-2019 6:25|Sezione 6|0 Commenti
PERUGIA – Sapevano fare molto bene il loro mestiere i banchieri perugini: scelsero il pittore più famoso dell’epoca – siamo alla fine del Quattrocento – per ornare e abbellire la Sala delle udienze del Nobile Collegio del Cambio, ma riuscirono a sottopagare il celebre Pietro Vannucci, detto il Perugino (a destra in basso), che probabilmente aveva un debito economico o di riconoscenza con qualcuno di loro) e gli fecero allungare il collo per lunghi otto anni, prima di saldargli definitivamente la parcella stabilita: 350 ducati veneziani (ciascuno del peso di quasi 3 grammi e mezzo di oro a 24 carati).
Questo singolare e interessante retroscena è stato portato alla luce dal ricercatore Alberto Maria Sartore, funzionario dell’Archivio di Stato, che ha ritrovato e studiato approfonditamente la minuta preliminare, in due pagine scritte in volgare e vergate dal notaio Pietro Paolo di ser Bartolomeo, del contratto steso tra le parti (il Collegio del Cambio e l’artista). L’interessante ricerca – un poco snobbata a Perugia e in Italia – è stata pubblicata dalla prestigiosa rivista internazionale “The Burlington Magazine” di Londra, con traduzione curata dal professore Donald Cooper, docente di storia dell’arte rinascimentale italiana a Cambridge.
La ricerca si trasforma pure in una lente d’ingrandimento sull’ambiente socio-storico-culturale della Perugia a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento. Braccio Baglioni, signore di fatto di Perugia (suo nonno materno era il grande Braccio Fortebraccio da Montone) e munifico protettore delle arti, era morto da pochi lustri (1479). Gli intellettuali, adunati attorno alla sua figura e alla sua “corte”, erano migrati intorno all’istituzione del Cambio, stella polare della migliore, colta, raffinata e più ricca aristocrazia cittadina: Amico Graziani (pronipote di quel Matteo che meno di cento anni prima era stato uno dei benefattori che permisero la messa in opera della grande vetrata policroma di San Domenico), Alberto Baglioni, Carlo Cinaglia ed ancora Teseo della Corgna, Francesco Montemelini, Monaldo Boncambi, Ghiberto de’ Ghiberti, Marco Monaldi. Fu il Graziani, cambista, ma anche apprezzato umanista, a richiamare in città Francesco Maturanzio e fu il Cinaglia a contattare il “maestro Pietro de Cristoforo di Città della Pieve, cittadino di Perugia”. L’intellettuale e il pittore, insieme, per onorare ed esaltare la potente istituzione dei banchieri perugini.
I committenti coltivavano un sogno e lo realizzarono: tenere udienza in una sala “bellissima” frutto dell’opera “o del Perugino o di un altro pittore esperto quanto lui”, come fecero riportare sul documento.
Il contratto preliminare è datato 26 gennaio 1496, quello definitivo venne perfezionato e firmato l’11 maggio 1497. Cinque giorni prima cinque pittori, collegati a Pietro Vannucci – Ludovico d’Angelo, Sinibaldo Ibi, Berto di Giovanni, Lattanzio di Giovanni, Eusebio da San Giorgio, conosciuti come “la società del 1496” – , avevano preso in locazione palazzo Acerbi, guarda la singolarità, ad appena una ventina di metri di distanza dal Cambio. Come dire: casa e bottega.
Siglando il contratto, il “divin pittore” si impegnava a completare gli affreschi e le due, richieste specificatamente, tavole con la Trasfigurazione e il Presepe (dipinti a olio) in un solo anno. L’artista, invece che sulle tavole, rappresentò poi i due momenti della vita del Cristo, negli affreschi. I navigati cambisti tra le clausole fissate stabilirono una serie di macchinose e onerose penali in caso di ritardi o di mancato rispetto degli accordi. Le “Istorie” da dipingere erano state previste in maniera precisa, puntuale, segno di un accurato studio di preparazione (la parte culturale era stata affidata dai banchieri al Maturanzio, che rientrò da Vicenza). Nel contratto venne specificato, ancora, che sopra la “ringhiera” (il pulpito) venisse rappresentato Catone il Giovane, eroico emblema di onestà e venne precisato che l’artista usasse oro, argento e “azzurro de la Magna” per dipingere: il meglio del meglio. Le grottesche, invece, vennero affidate ad un altro pittore, più esperto in questo genere pittorico.
Il Perugino completò gli splendidi affreschi della Sala (l’ultimo tocco di pennello riguardò il proprio autoritratto) nel 1500. Ma il saldo finale di 50 ducati d’oro il pittore lo incassò solo e soltanto nel 1507.
Per questa cifra – che gli studiosi ritengono non alta rispetto all’impegno temporale richiesto, ai metri quadrati affrescati e al prestigio che a quell’epoca godeva l’artista, all’apice della sua fama – comunque Perugia vanta, oggi, la testimonianza di quel che rimane del suo glorioso Rinascimento. Infatti (e purtroppo) le dieci pale che Raffaello, qualche anno più tardi, dipinse in città, hanno imboccato, per gli insondabili disegni della storia, strade diverse (tranne la tela rimasta in San Severo) e non ci sono più, perché distrutti o inglobati nella Rocca Paolina su ordine di papa Farnese deciso a punire l’oligarchia perugina dopo la “guerra del sale”, i palazzi del munifico Braccio Baglioni e della sua potente casata.
Braccio, amico personale di Lorenzo il Magnifico, teneva corte (accogliendo poeti, scrittori, pittori, storici, geografi, intellettuali in genere), quasi come il suo più famoso sodale fiorentino, nel suo palazzo affrescato da artisti di grido (tra i quali Domenico Veneziano e Piero della Francesca) e come i grandi regnanti dell’epoca ospitava e faceva accudire nelle proprie stalle animali feroci e rari, a ostentazione del proprio potere, della propria ricchezza, della propria munificenza.
La memoria del Rinascimento perugino dunque è rimasta, praticamente, “soltanto” in quello scrigno che è il Collegio del Cambio, da difendere, tutelare, se possibile valorizzare.
Elio Clero Bertoldi 

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