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Serve l’educazione alla sconfitta

di | 2023-12-10T09:37:24+01:00 10-12-2023 5:00|Attualità, Sezione 1|0 Commenti

ROMA – Nel dibattito di questi ultimi tempi sul tema del patriarcato, suscitato dall’aggravarsi del fenomeno dei femminicidi, è assente una questione non irrilevante: quella del senso della vita. Una questione preminente rispetto al rapporto uomo-donna perché investe l’individuo nella sua essenza. Prima di sentirsi appartenente ad un genere – maschio o femmina – noi siamo, infatti, persone nate al mondo con un mandato che ognuno può decodificare soltanto conoscendo a fondo se stesso. Nel dibattito in corso sui social, in tv e sui media in genere, invece, la recrudescenza della strage di donne viene attribuita al rigurgito di una cultura dove il maschio l’ha fatta sempre da padrone perché è stato educato così: a Sparta le donne servivano solo a fare figli e infatti non li potevano allevare, nella “democratica” Atene, addirittura, i diritti civili li avevano solo gli uomini, a Roma poi l’autorità sulla “familia” era esclusivamente del “pater”.

Con il Cristianesimo la situazione si complica: la donna diventa sinonimo di demonio e solo a una, Maria, viene riconosciuto il merito di un parto miracoloso, assolutamente indipendente dalla sua femminilità, “surclassata” agli occhi dei credenti dalla “purezza”. L’immagine della Madonna, infatti, appare più “asessuata” che femmina, non a caso, e quindi è una donna sui generis, non come le altre e per questo gode di una posizione privilegiata. Tutto questo è retaggio del patriarcato, è vero. Ma la millenaria cultura maschile – oggi si chiama “mascolinità tossica” – si mescola ad una vita fatta di “outfit” e “performance”, di lusso e vetrine mondane cui non corrisponde la cura e la conoscenza di sé e, di conseguenza, degli altri. Si vive, insomma, in superficie e proprio per questo ciò che conta è, appunto, ciò che sta fuori e non dentro di noi: l’esteriorità.

Questo approccio alla vita sta conducendo a clamorose sviste, soprattutto tra i giovani, come quella di interpretare come tragedie dei banali fallimenti: un brutto voto a scuola, stare in panchina ad una partita di calcio, la fine di una storia sentimentale. Ciò che non esalta l’immagine di sé viene temuto come possibile motivo di vergogna. La paura di non essere all’altezza di fronte agli altri fa talmente paura che la tendenza è ad evitare il confronto. Oppure a distruggere. Se a scuola un figlio non prende bei voti il genitore lo porta in un altro istituto e non cerca di persuaderlo che la soluzione migliore, invece, sarebbe quella di modificare il modo di studiare e di rapportarsi con l’ambiente circostante e i docenti. Nessuna stroncatura viene accettata come esperienza di vita. Parola d’ordine: cancellare ciò che potrebbe indurre alla vergogna. Nella nostra società – che Bauman definisce liquida per il tentativo del singolo di uniformarsi alla massa gettando ciò che è vecchio e acquistando merce nuova – quando qualcosa non va si elimina, si cambia come si fa come una merce. Lo si fa anche con le persone.

Pier Paolo pasolini

Non è solo il patriarcato strisciante che fa sentire l’uomo in diritto, di fronte alla donna che potrebbe essere la causa della sua vergogna, di ucciderla. Il femminicidio sa anche molto di “performance” mancata e non a caso matura dopo una relazione finita. Lo diceva già Pasolini negli anni ’70 che bisognava “educare le nuove generazioni ad accettare la sconfitta” ed oggi la sua profezia si avvera: i molti giovani che si sono macchiati le mani del sangue di una ex non hanno saputo accettare un rifiuto, è stata più forte per loro la necessità di ripristinare l’onore eliminando la causa del disonore. La vita, per questi uomini che si macchiano di delitti orribili, non ha alcun valore. Considerano gli altri meri accessori da indossare per affermare la propria identità.

Zygmunt Bauman

Tornando al punto iniziale, il problema di fondo è che si pensa poco a quale sia il significato della nostra esistenza, un arco temporale nel quale ognuno di noi è chiamato ad assolvere un compito che non consiste certamente nell’affermare la propria identità ma, casomai, nel diventare ciò per cui si è nati. Ma chi lo sa il motivo per cui è nato se l’indagine di se stessi è considerata “off limits”? Se mostrarci agli altri per quello che siamo ci fa paura e ci fa temere di vergognarci? Molti filosofi si sono espressi su questo argomento. Aristotele sosteneva che l’uomo è un animale sociale per la sua naturale predisposizione alle relazioni. Oggi si parla molto di queste come chiave dell’esistenza. Il filosofo Vito Mancuso considera la relazione come “la logica dell’essere”. “L’identità non nasce dal conflitto – sostiene Mancuso – ma dalla relazione con gli altri, relazione che mentre approfondisco mi permette di conoscermi e di diventare ciò per cui sono nato”.

Il filosofo Vito Mancuso

Nelle relazioni, dunque, nella cura di esse, nel migliorarci verso gli altri, nel tentare di riequilibrare incomprensioni, sedare liti, smussare rigidità oppure nell’allontanarsi quando si constata la distanza insanabile con i nostri simili, sta il senso della vita. Il femminicidio, come ogni conflitto grande o piccolo che sia, nasce quando non si è consapevoli della necessità di un esercizio continuo per raggiungere l’equilibrio, per sua natura sempre instabile, con l’altro. Dietro questo orribile fenomeno ci sono esistenze vissute in superficie, non consapevoli di essere. Ci sono quei “bravi ragazzi” di cui si parla solo quando tirano giù la maschera e compiono delitti. Oltre allo zoccolo duro di un patriarcato resistente, ci sono tutti i fake della nostra società malata di apparenza.

Gloria Zarletti

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