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Dido Sacchettoni, omaggio al giornalista

di | 2018-07-22T07:33:55+02:00 22-7-2018 6:35|Attualità, Sezione 8|0 Commenti

Ve lo proponiamo così com’è. Come è stato pubblicato sul sito del giornalista Franco Abruzzo. Leggetelo, vi farà riflettere su quello che è il giornalismo e sui giornalisti che non esistono più.

“In poche ore la ex redazione del Messaggero si ritrovò… Questa è la storia di una notte e due giorni in cui quasi un’intera redazione giornalistica del passato (quella del Messaggero) si “ritrova” e fa i conti con le smemoratezze e le superficialità del presente, per rendere omaggio ad un collega speciale, Dido (Aleardo) Sacchettoni.

di Gianni Giovannetti

ROMA – 18.7.2018 – Quando, quel mattino di una settimana fa qualcuno, anzi più di qualcuno ha pensato bene di fare una telefonata al Messaggero per informare che Dido (Aleardo) Sacchettoni ci aveva lasciati, mai avrebbe immaginato quello che sarebbe successo “poi”. Un “poi” – come nelle favole d’avventura per bambini – carico di meraviglie, colpi di scena, mostri cattivi e super-eroi, altruismo e meschinerie varie, generosità, ingenuità e voglia di sognare. Dido è stato infatti una meravigliosa “arteria” de Il Messaggero, uno di quei vasi cioè dove scorre il sangue buono che va ad alimentare gli organi “vitali” di un organismo sano. E lui era un portatore di sangue, generoso e colto, fumino e testardo, mai accondiscendente eppure così altruista. Uno che scriveva in un modo da far ingelosire le migliori firme del giornalismo italiano, ma a differenza di molti, per lui ogni virgola, ogni aggettivo, ogni rimando erano soppesati, studiati, documentati con uno scrupolo filologico mai pedante. Neppure la descrizione minuziosa di un volto grinzoso su un letto d’ospedale o dei pedalini multicolori di qualche turista nel bivacco di Fontana di Trevi, venivano citati banalmente e a sproposito. E quella descrizione diventava affresco, denuncia, testimonianza.
Torniamo alla cronaca. Ordunque si telefona al Messaggero, nella “certezza” che quel giornale non avesse dimenticato. Nella certezza che il “suo” giornale, il giornale di Dido, non potesse non sapere e non potesse non concepire il giusto spazio e l’omaggio a una perdita così irrimediabile. Passano le ore, i lunghissimi minuti di un’aspettativa ansiosa e triste. Ma nessuno, da via del Tritone richiama, si fa vivo. Qualcuno pensa di agganciare i “piani alti”. Ma niente, nessuno si fa trovare e qualcuno che risponde in realtà non dà risposte. Ma come? Dido, il Messaggero. Il giornalismo italiano migliore che perde uno dei suoi figli migliori?
E in quel momento scatta qualcosa di indecifrabile razionalmente. Se il Messaggero non scrive niente sulla morte di Dido (Aleardo) Sacchettoni, scriviamo noi – i giornalisti del Messaggero che fu – un necrologio da pubblicare a pagamento proprio su Il Messaggero. E l’unico modo per fare in fretta e raggiungere tanti, è mettere mano a quella per alcuni versi detestabile applicazione di “messaggistica istantanea multipiattaforma” che è WhatsApp, quella – per intenderci – di cui mamme e babbi iperansiosi e iperprotettivi abusano per parlar male di maestre e professori o ritrovare l’astuccio dei colori perduto (rubato???) in classe dai figli. Nottetempo, con telefono e WhatsApp, si rimaterializza per magia un Messaggero che non abita più in via del Tritone.
Giornaliste e giornalisti di una redazione per alcuni versi indimenticabile, persino gloriosa negli anni duri del terrorismo o in quelli entusiasmanti dei diritti civili e delle campagne sociali a favore dei cittadini e della città di Roma, prima dei populismi contemporanei. Vecchi e giovani di oggi e di ieri, ben 6 ex direttori (Vittorio Emiliani, Mario Pendinelli, Giulio Anselmi, Paolo Gambescia, più Paolo Ruffini e Marcello Sorgi) e più di 100 fra colleghe e colleghi fanno a gara per sottoscrivere il necrologio.
In un complicato ed estenuante meccanismo di condivisione testo, revisione elenchi, aggiunte nomi e numeri di telefono per pagare la quota, passa quasi un’intera notte a compilare e commentare. Sì a commentare come siamo e come eravamo, pure con qualche strafalcione nostalgico (“quanto eravamo belli, quanto eravamo giusti e quanto non ce ne eravamo accorti”) e un tragicomico ondeggiare tra The Big Chill e Amici Miei.
Ma soprattutto a ragionare, col favore delle tenebre, di come questo nostro mestiere non riesca più a farsi strada in una modernità che cerca nuove fonti di informazione, è vero, ma che ancora ha bisogno, un formidabile bisogno di competenza, serietà, etica e anche di passione e di coraggio. Cose che pure prima non esistevano tutte e tutte insieme, ma qualcuno ce le insegnava e le pretendeva e le praticava. Insomma passa la notte e al mattino del 12 luglio, mentre si fanno i turni e si aggiungono nomi su nomi e si fanno i conti dei bonifici da versare e si rincorrono nuovi numeri di telefono, ci giunge voce che al Messaggero qualcuno aveva riferito della nostra idea di necrologio e della nostra chat. Uno dei colleghi, pure partecipe della nostra iniziativa, era stato incaricato dalla direzione di scrivere, con ben 2 giorni di ritardo, un ricordo di Dido per l’edizione del 13. Insomma un necrologio, il semplice annuncio di un necrologio con 107 firme pesanti e pensanti, aveva sbaragliato una indifferenza (?), una distrazione (?), una censura (?) di via del Tritone sulla morte di Dido Sacchettoni. Sicuramente un giornalista, un nome, una storia forse ingombranti. Qualcuno, in quelle ore febbrili e disorientanti, suggerisce a quel punto di chiederne la pubblicazione su Repubblica o sul Corriere della Sera (che proprio quella mattina mette in pagina un commosso saluto di Giuseppe Di Piazza). Gli altri, la stragrande maggioranza di tutti gli altri vuole invece che sia Il Messaggero a pubblicare quel testo e quelle firme. E testo e firme saranno dirompenti. È stato come leggere sul Messaggero di oggi un modo di fare il Messaggero che non esiste più. Come la Neverland dei Giardini di Kensington, un’Isola che non c’è che pure è il luogo della libertà e delle rivoluzioni. Una cosa insomma straordinaria e semplice, frutto di una congiuntura bislacca, non del tutto casuale, ma lievemente ammantata di quella magia (o chiamatela come vi pare) che sempre anima le più belle favole d’avventura per Grandi e Piccini”,

Nella foto di copertina, Dido Sacchettoni

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