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Le pietre di inciampo testimoni dell’orrore

di | 2021-01-22T10:35:33+01:00 24-1-2021 6:15|Attualità, Sezione 4|0 Commenti

ROMA – Si avvicina il 27 gennaio, Giornata Internazionale della Memoria, dedicata alle vittime dell’Olocausto: una decisione presa dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 1° novembre 2005. Ed una nuova Pietra d’Inciampo ci attende a Roma, dinanzi all’ingresso dello stabile n.15 di via Maiella a Monte Sacro. Un quadrangolo di ottone brilla al sole, a livello della pavimentazione stradale, dinanzi al portone d’accesso di un ampio palazzo che, insieme con altri, attornia un giardino alberato, a formare un complesso urbanistico tipico degli anni ’20-’40 in Italia.

Il predetto quadrangolo contiene quattro quadrati regolari (si tratta di veri sanpietrini romani, ricoperti di una sfoglia di ottone), ciascuno inciso con nomi e dati numerici: ma in questo speciale sanpietrino, nessun rilievo o incavo richiama l’attenzione dei passanti, se non il bagliore dorato della levigata superficie. Roma se ne sta popolando di anno in anno, anzi dal 1993, da quando l’artista tedesco Gunter Demnig iniziò il suo lavoro di ricerca dei deportati romani morti nei campi di concentramento tedeschi, a ciascuno dei quali dedicò un’opera simbolica: un sampietrino tipico di Roma con incisi il nome della vittima, la data di nascita, di deportazione, di morte e del Campo dove essa avvenne.

Demnig ha dato alla nudità dell’oggetto, piatto come una mattonella su cui di fatto non inciampa nessuno, un nuovo significato, e lo ha dato anche al bagliore dorato, simbolo del suo perenne valore pur nella povertà materiale. Lo ha dato alla collocazione dell’oggetto dinanzi alla porta di casa simbolo del ritorno, e tutto parla qui della non volontà di compiere il male, di dissociare dalla ricchezza il fine ultimo dell’oggetto, che viene legato al valore morale di esso.

Nello scorso 27 gennaio, sul portone di via Maiella n.15 venne esposta anche una fotografia della famiglia Funaro: i due sposi, così giovani e felici dei due figli di 7 e 13 anni, sono davvero la quintessenza di una famiglia serena, incolpevole, che non riesce nemmeno a immaginare l’orrore del loro vicinissimo futuro, non solo di morte, ma di inaudita sofferenza. Seppe la madre della morte del piccolo Adolfo, ad Auschwitz sette giorni dopo l’arresto? Seppe che il marito Leo sopravvisse un anno, morendo a Varsavia nel febbraio 1944? Nulla c’era negli occhi dei bambini, nulla ancora di tutto ciò, né in quelli dei genitori: né ancora oggi vive qualcuno dei parenti. Di loro serba per noi il ricordo un artista, un artista tedesco: e anche questo è un messaggio simbolico.

Paola Pariset

Nell’immagine di copertina, la Notte della Cabbalà al quartiere ebraico di Roma

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