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Vocativo e virgola vanno sempre d’accordo

di | 2023-03-31T22:27:37+02:00 2-4-2023 6:15|Cultura, Sezione 4|0 Commenti

ROMA – Quel nome, proprio quello tra tanti. Chiamato, richiamato, implorato, evocato, invocato.  Non un altro, proprio quello. “Ave, Maria”, “Padre nostro” ma anche “Agnese”, “Silvia”, “Rosalina” sono l’incipit di preghiere e di canzoni. Molte iniziano con questo complemento che non è proprio un complemento ma è un modo per rivolgersi a qualcuno mettendolo in risalto tra gli altri, anche tra la folla. E’ così anche se non tutti lo sanno e quindi la svista è a portata di mano.

La regola, infatti, affinché il ruolo di quel termine si comprenda esprimendo chiaramente anche quella chiamata, quell’implorazione, quell’invocazione, è che prima, assolutamente, ci sia la virgola. Stiamo parlando del vocativo, caso latino che in italiano corrisponde al complemento di vocazione (questo sconosciuto), destinato a scomparire nell’uso della nostra lingua dove la sua confusione con il soggetto o con il complemento oggetto già sta mietendo tante vittime. Lo sa bene wathsapp, complice di tanti fraintendimenti e qui pro quo a causa di messaggi con errori, scritti di fretta e senza troppa attenzione alla grammatica, primo tra tanti, appunto, quello sul vocativo.

Il fatto è che questo fondamentale complemento (termine che significa, non a caso, completamento), se viene usato male è capace di combinare disastri, non solo sintattici ma anche “umani” perché l’uso corretto della lingua dà la possibilità di esprimere in modo trasparente anche i pensieri. Va da sé che ogni errore commesso nella pratica quotidiana della parola ci pone male con le persone con cui abbiamo rapporti. Quindi poi non ci lamentiamo se veniamo considerati cannibali quando scriviamo: “Andiamo a mangiare bambini” facendo intendere quel “bambini” come oggetto dell’azione e non come i destinatari della chiamata perché, appunto, abbiamo considerato superflua, ridondante, quella virgola (tra mangiare e bambini). Essa, invece, può essere determinante anche in casi estremi come nell’esempio citato.

La pausa, l’indugio, il sospiro, indotto da quel piccolo segno di interpunzione pronunciato prima di “quel” nome non sono segno di puntiglio accademico né di snobismo, semmai di gentilezza verso la persona o la cosa nominata e anche di correttezza nella comunicazione che, in questo modo, non può dare adito a equivoci. Quel “ciao”, quando è seguito da una virgola, non può essere rivolto che alla persona di cui è scritto il nome subito dopo. E non basta ricorrere agli emoticon per spiegarsi meglio. Servono le parole, collocate al posto giusto.

Se una ragazza scrive: “Chiamami, Luciano”, non darà dubbi al destinatario che invece potrebbe rimanere spiazzato rispetto al  genere dell’autrice, nel ricevere lo stesso messaggio privo della virgola. Sono finezze linguistiche, d’accordo, ma farle finire nel mare dello “spam” comunicativo in cui ci siamo immersi può farci perdere il gusto di dirsi le cose in un certo modo, di emozionarsi, di cogliere in ciò che ci dicono gli altri e di dare loro un’attenzione determinante per migliorare, o addirittura cambiare, il nostro modo di vivere e di relazionarci.

Quindi facciamolo sentire il vocativo. E mettiamola la virgola.

Gloria Zarletti

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