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Una “bella montanina” fra gli amori di Dante

di | 2023-03-31T22:54:50+02:00 2-4-2023 6:10|Personaggi, Sezione 3|0 Commenti

PERUGIA – Una “bella montanina” fece girare, letteralmente, la testa a Dante. Sì, proprio lui, l’Alighieri, il sommo poeta, un tipo scontroso, poco incline a dare confidenza, orgoglioso e pieno di sé. Eppure questa donna misteriosa e senza nome (per noi, ovviamente) incontrata tra il 1306 e il 1307 tra le montagne della Garfagnana e le valli del Serchio, durante il periodo iniziale dell’esilio, tenne prigioniero con le sue grazie il “ghibellin fuggiasco”, quanto neppure la mitica Circe con Ulisse… Una pura curiosità storico-letteraria, ma significativa: se non altro rende più umano l’ombroso letterato fiorentino.

Dell’attrazione, assorbente ed assoluta, che Dante nutrì per Beatrice Portinari, divenuta moglie di Simone de’ Bardi e morta ad appena ventitré anni, lo saprebbero ripetere anche i mattoni delle aule dei licei. I due si erano conosciuti bambini – nel 1274, lui di nove, lei di sette anni – e si erano poi rivisti nel 1283, quando Dante rimase così turbato dall’incontro per strada e dal saluto che le aveva indirizzato il suo amore segreto (mai rivelato alla diretta interessata), accompagnata nell’occasione da altre due signore (una donna onesta, ai tempi, non usciva mai a passeggio, neppure per andare a messa, da sola), tanto da scappar via a casa, balbettante e rosso in viso, senza neanche rispondere: figura barbina da diciottenne timido, imbranato, impacciato.

Non si videro mai più: Bice si spense, pare di parto, pochi anni più tardi (nel 1290?). Avendo saputo, forse, che il suo amico d’infanzia e dello stesso quartiere, aveva combattuto coraggiosamente nella battaglia di Campaldino (1289) tra i cavalieri “feditori”, dunque in prima linea ed in altre operazioni militari al servizio della città. L’Alighieri rese, poi, immortale la sua “fiamma”, eleggendola a protagonista di quell’immenso capolavoro che è “La divina commedia”.

A Gemma Donati, figlia di Mancato Donati, la moglie impalmata all’altare nel 1285, rimasta sempre in secondo piano, silenziosa e discreta ed alla quale il poeta, nonostante lei gli avesse sfornato tre o quattro figli (Jacopo, Pietro ed Antonia, certi; forse anche Giovanni, di cui non sono rimaste notizie confermate) non ha dedicato non un sonetto, ma neanche un rigo. Bella riconoscenza…

Dunque Dante coltivò un amore platonico, idealizzato ed un legame coniugale, ad essere larghi, puramente di forma.
Però l’Alighieri con la “bella montanina”, conobbe e visse pure un sentimento travolgente, pazzesco, tale da obnubilargli il cervello. Una esperienza sessuale che il filologo Emilio Pasquini ha definito “terribile e furibonda”, brutale e violenta. Di mera lussuria.

All’epoca il “nostro” aveva trovato ospitalità nei palazzi del marchese Moroello Malaspina, capostipite del ramo Giovagallo e della sua splendida consorte, Alagia Fieschi. Secondo molti storici e filologi, pur svolgendo incarichi da ambasciatore per il potente marchese, noto condottiero militare, Dante aveva cominciato a comporre almeno qualche canto dell’Inferno ed altre opere, sia in volgare, sia in latino. Quando esplose la passione, inarrestabile, per la procace “montanina”, però, interruppe ogni attività letteraria: i sensi e la carne presero il sopravvento su tutto. Il poeta spasimava per la donna, che forse non sapeva neppure leggere, ma ecceleva, all’evidenza, nell’arte della seduzione, voluta o dote naturale che fosse.

Più tardi Dante si pentì di essersi lasciato trasportare, in modo tanto “vile”, dai sensi. Lo scrive lui stesso nella “Vita nova” quando confessa”… e lo mio core comincioe dolorosamente a pentere de lo desiderio, che sì vilmente, s’avea lasciato possedere alquanti die, contra la costantia de la ragione…”

Non solo. Anche da lettere intercorse tra il marchese e Dante ed un componimento inviato sempre al Malaspina (dal titolo eloquente: “Amor, da che convien ch’io mi dolga”) ed uno scambio di sonetti tra il “nostro” ed il suo amico Cino da Pistoia (rimatore stilnovista pure lui e giureconsulto, tra l’altro docente dell’università di Perugia, allora agli albori) emerge questo singolare particolare della vicenda privata del padre del nostro idioma (più di un terzo dei lemmi della lingua italiana sono scaturiti dalla sua vigorosa mente).

Quando la sbandata – quasi incredibile per un uomo di tal fatta per una giovane “bella e ria” (crudele) e, si ritiene, analfabeta – si concluse (non resta alcun riscontro su chi pose la parola fine alla turbolenta e carnale “liaison”), il fiorentino riprese in mano la penna e vergò il “De vulgari eloquentia” e, per alcuni biografi, il V canto dell’inferno, quello dei “lussuriosi” e della storia travolgente, finita nel sangue, di Paolo e Francesca.

Forse, se avesse scritto più tardi di quanto risulta il sonetto “Tre donne intorno al cor mi son venute…” il “tosco” avrebbe potuto trattare, invece che della giustizia universale, di quella umana e della legge naturale, descritte in vesti femminili, del confronto tra Beatrice, Gemma e la Montanina, tre tipi di donna decisamente diversi, anzi opposti. Magari aggiungendo qualche aneddoto, qualche ragguaglio, sulle caratteristiche fisiche e morali di ciascuna di loro. Della “montanina”, infatti, non si conosce proprio nulla. Bionda, rossa o mora? E di quale colore brillavano i suoi occhi? Ed il corpo, snello o giunonico? Con quali “armi” la “Venere montana” era riuscita ad irretire un uomo coltissimo ed esperto di governo, quale l’Alighieri, così diverso e lontano dalle genti delle cime della Garfagnana, dato che lui stesso confessava, nelle epistole agli amici, di non aver trovato nessuno con cui scambiare discorsi e confidenze?

Chissà se l’Alighieri – colpito dalle violente febbri malariche al rientro da una ambasceria a Venezia, per conto di Guido Novello da Polenta, signore di Ravenna, suo ultimo anfitrione – avrà ripercorso col pensiero, negli ultimi istanti della sua esperienza terrena – aveva, all’epoca della morte, 56 anni – la vicenda sentimentale intrecciata con la “bella montanina” per la quale, ormai maturo (oltre i quaranta anni), aveva – “alquanti die”, a lungo insomma – perduto il senno, tanto da annotare che se la sua Firenze (“vota d’amore e nuda di pietade”) lo avesse richiamato, in quei giorni, in patria, non avrebbe avuto la libertà di tornare, tale la forza immane che lo tratteneva tra le valli e i monti delle Alpi Apuane.
Ah, l’amore…

Elio Clero Bertoldi

Nell’immagine di copertina, la rappresentazione dell’incontro di Dante con Beatrice

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