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Quando a Roma c’erano tre imperatori

di | 2019-08-10T14:36:23+02:00 11-8-2019 6:35|Cultura, Sezione 8|0 Commenti

PERUGIA – Le vie del Signore o del caso, fate voi, sono infinite, si sa. Non sappiamo come abbia fatto l’imponente statua in bronzo (alta 2 metri e 41 centimetri) dell’imperatore di Roma Gaio Vibio Treboniano Gallo, perugino doc, cui erano stati attribuiti già in vita i titoli di Pio, Felix, Augusto, si sia salvata dalle turbolenze, dalle guerre e dalle invasioni, che hanno attraversato i secoli dalla sua atroce morte (nel 253, fu ammazzato, insieme al figlio Volusiano dai gladi dei suoi stessi soldati) in poi l’Italia e Roma.

E’ accertato, tuttavia, che nel 1805, nelle vicinanze di San Giovanni in Laterano, smontata e posta in una cassa di legno, l’opera d’arte fu ritrovata dall’ambasciatore russo (oltre che imprenditore e filantropo) alla corte dei Lorena di Firenze, conte Nicola Demidoff, che dalla natìa San Pietroburgo, si era stabilito in Toscana. La statua, rinvenuta a Roma, era finita proprio nei possedimenti aviti in Russia dei Demidoff, diventati ricchi – da semplice artigiano che era il capostipite – con la fabbricazione delle armi.

Lì la statua era rimasta per decenni, quando nel 1902 venne posta all’asta, a Parigi e regolarmente acquistata dal Metropolitan Museum di New York, restaurata e, successivamente, esposta (nel 1905). Il tutto – curiosità che riguarda la nostra comunità regionale umbra – in contemporanea, grosso modo, con l’acquisto – per nulla chiaro, anzi sicuramente non lecito – del famoso carro del Colle del Capitano di Monteleone di Spoleto (anche questo esposto nello stesso museo newyorkese).

L’idea di un gruppo di professori universitari perugini di varie discipline (Cotana, Bonamente, Sgamellotti, Ugolini) con la sponsorizzazione del Rotary Club Perugia Est, presieduto dal professor Emilio Gentile, sarebbe quella di effettuare, oltre ad altre importanti iniziative per ricordare la figura e la storia dell’imperatore perugino, una sorta di clonazione della statua, grazie ad una scannerizzazione in 3D dell’opera, per poi replicarla, sempre in bronzo ed esporla, definitivamente, nella Rocca Paolina di Perugia. Il progetto resta, al momento, nel cassetto.

Treboniano, alla morte di Decio, caduto ad Abbritto combattendo contro i Goti, a metà del 251 d.C., fu acclamato imperatore dalle truppe, come collega di Ostiliano, figlio dell’Augusto deceduto.

Il perugino associò al potere il figlio, Gaio Vibio Alfinio Gallo Veldumiano Volusiano, col titolo di Cesare e gli diede in moglie, per rafforzare i rapporti tra le due famiglie (i Vibi ed i Deci), la sorella di Ostiliano. Il quale, però, pochi mesi si spense giovanissimo vittima della peste. Non solo. La pace conclusa coi Goti, alla fine del 251, venne rotta, nel 253, dai barbari. Per respingerli, l’imperatore perugino dovette inviare contro di loro M. Emilio Emiliano, rettore della Mesia. Il generale, originario della Mauritania, sconfisse i Goti e venne subito acclamato – era una costante di quei tempi particolarmente turbolenti – imperatore. Forte dell’assenso espressogli da tutte le province e le truppe di stanza in Oriente, Emiliano si diresse verso Roma per regolare i conti con Treboniano e sedersi sul trono, col consenso formale del Senato.
Treboniano allora incaricò P. Licinio Valeriano, a capo delle legioni della Rezia e dell’Alto Danubio, di fermare i “ribelli”.  I soldati, tuttavia, acclamarono imperatore, a loro volta, Valeriano. Insomma, in quei mesi risultarono in carica ben tre imperatori, in armi fra loro. Nel maggio, nel frattempo, Emiliano, in una battaglia in Umbria (o a Terni o a Foligno, le fonti sono discordi) batté l’imperatore ufficiale. Subito dopo gli sconfitti Treboniano e Volusiano vennero massacrati dai loro stessi legionari. Ma neanche Emiliano poté gioire a lungo, sebbene avesse ottenuto il formale riconoscimento del Senato: tre mesi dopo, in agosto, venne trucidato dai propri soldati – o a Spoleto o fra Narni ed Otricoli – e la sua tragica fine spalancò la strada dell’impero a Valeriano (ed a suo figlio Gallieno), che essendo di nobile schiatta romana, risultò gradito non solo ai legionari, ma pure ai senatori. Il padre prima ed il figlio poi guidarono l’impero per una quindicina di anni (fino al 268).

 Elio Clero Bertoldi

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