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“L’età fragile”, muti e passivi fra mille inutili parole

di | 2024-02-01T20:38:56+01:00 4-2-2024 5:20|Cultura, Sezione 5|0 Commenti

MILANO – “Non esiste un’età senza paura. Siamo fragili sempre, da genitori e da figli, quando bisogna ricostruire e quando non si sa nemmeno dove gettare le fondamenta”: l’estratto, desunto dall’ultimo libro di Donatella Di Pietrantonio “L’età fragile” (2023), esprime una visione condivisibile dell’attuale realtà in cui paura, silenzi, incomunicabilità, violenza sono divenuti tratti sempre più distintivi di una gran parte di individui. La storia è ambientata in Abruzzo, le cui descrizioni paesaggistiche non sono mai semplici didascalie identificative di territori, quanto piuttosto immagini vive, vibranti che rendono quei luoghi spazi dell’anima e quasi – per così dire – personaggi accanto agli altri.

Donatella Di Pietrantonio

La dedica del frontespizio “A tutte le sopravvissute” lascia presagire un evolversi drammatico degli eventi; la trama, infatti, prende avvio da un episodio di cronaca nera realmente accaduto. Sotto le pareti ripide e rocciose del Dente del Lupo – nel Massiccio Montuoso del Gran Sasso – su un terreno che appartiene alla famiglia della protagonista, Lucia, si vedono ancora i resti di un campeggio abbandonato. In questi luoghi trenta anni prima si è verificato l’assassinio e stupro di due ragazze modenesi in vacanza con la loro canadese; mentre un’altra giovane donna, Doralice, nativa del luogo e amica di Lucia (“siamo state ragazze insieme”) è riuscita a fuggire, se pur ferita. Quel delitto, mai descritto nella sua interezza, aleggia con continui richiami fra le pagine, quasi a non volerlo mai rielaborare ed esaminare razionalmente, proprio come avviene nei ricordi dei personaggi e della comunità intera.

In questo modo, riposto nei silenzi tormentati di chi è sopravvissuto, finisce col divenire un vero e proprio fil rouge delle loro vite. Per Doralice, e unitamente per la sua inseparabile amica Lucia, la spensieratezza della adolescenza si è rotta proprio in quella notte, quando nella loro vita è entrata prepotentemente la ferocia del male che le ha proiettate nel mondo degli adulti. Il buio ha portato via per sempre le due giovani campeggiatrici ed ha sconvolto l’esistenza di Doralice, che non riuscirà mai a superare tanta efferata crudeltà ed andrà a vivere in Canada, dove svolgerà la professione di avvocato. Lucia, naufragato il suo matrimonio e soffocato tutto il dolore nel suo io più profondo, sceglie di restare col vecchio padre nel suo paese, vicino a Pescara ed è lì che accoglie sua figlia Amanda, “scappata” da Milano a causa della pandemia (“Ha preso l’ultimo treno, poi non è stato più possibile lasciare Milano e nessun altro luogo d’Italia”).

Le ragazze modenesi uccise sotto le pareti ripide e rocciose del Dente del Lupo

Ora Amanda, nella casa di famiglia, trascorre le sue giornate dormendo, non fa nulla, non studia, non parla, sembra spenta. Lucia, mentre “restituisce silenzio a silenzio”, si renderà presto conto che anche per sua figlia la meta della speranza (Milano), verso cui era partita piena di entusiasmo, si era rivelata un luogo di paura e che un altro episodio di violenza aveva fermato tutto, ancora una volta. Il segreto che ha fatto morire dentro Amanda è simile a quello del Dente del Lupo (“non chiedermi niente – ha detto – e poi ha cominciato a piangere”); e lei, sofferente ed impotente di fronte a quell’angoscia, si convince amaramente che forse “la nostra unica eredità sono le ferite”. Il dipanarsi degli eventi vedrà lo svolgimento delle indagini, l’individuazione del colpevole, le sedute del processo fino alla condanna.

La rievocazione del delitto del Morrone

Alla fine nel piccolo paese, spenti i clamori della cronaca (“all’improvviso tutto il paese leggeva i quotidiani)”, torna la routinaria e statica quiete, ed il tempo passa come se il suo trascorrere potesse sospendere il reale, mentre la vita di ognuno sembra continuare con i suoi meccanicismi, con il proprio carico di dolori e dei suoi non- detti. Sarà infine l’interesse degli speculatori edilizi, fortemente attratti dalla potenzialità turistica del terreno (“dopo il fatto non lo voleva nessuno, manco regalato”), a far riemergere il rimosso e dare una svolta agli eventi (“a volte il tempo decide di tornare indietro”) verso il finale.

Eugenio Borgna, psichiatra e saggista

Situazioni dure delineate con una narrazione che si caratterizza di termini spigolosi, quasi icastici, in cui nulla è lasciato all’enfasi e tutto ha il sapore amaro della vita; l’autrice riesce così a dar voce all’assordante vuoto di quei silenzi ed allo strazio di quei dolori inenarrabili. Lo psichiatra Eugenio Borgna sostiene che in mezzo ai bisogni e alle reciproche paure “c’è tanto silenzio, ci sono non-detti colpevoli” e, per quanto le parole che usiamo quotidianamente possano talvolta far male, è altrettanto innegabile che possano essere “scialuppe in un mare in tempesta”. È sua convinzione che comunicare non debba significare solo rispondere a una mail o a un messaggio, quanto condividere la propria intimità con quella di altri. Argomenta inoltre, nelle sue opere, che siano molteplici le cause della paura, della fragilità “parte della vita” e non già “’immagine della debolezza”, ma che sia sostanzialmente uniforme la risposta emozionale: ripiegarsi in se stessi, allontanarsi dalle relazioni con le persone, dal mondo e dalla vita, chiudendosi in una solitudine senza scampo.

Del resto comunicare deriva dal latino cum e munus, condividere (cum) la propria funzione, il proprio dovere, il proprio dono (munus) e quindi indica il condividere, il dialogare, il mettersi in relazione. Noi invece loquaces muti sumus (ciarliamo, ma siamo muti..), come ricorda argutamente Sant’Agostino in un passo delle Confessiones. La comunicazione odierna è proprio così: un semplice bla, bla, bla con ogni mezzo e ad ogni costo, una canea vuota ed irresponsabile; sorge, pertanto, il dubbio che stare in silenzio quasi intimorisca, forse perché costringerebbe a pensare, a guardarsi dentro, a giudicarsi più che a giudicare costantemente gli altri, scoprendosi così deboli, fragili o peggio vuoti e l’horror vacui, si sa, ha sempre fatto paura.

Adele Reale

Nell’immagine di copertina, il cippo a Mandra Castrata per le vittime del delitto del Morrone (20 agosto 1997)

 

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