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La memoria collettiva monito per il futuro

di | 2024-04-12T12:26:18+02:00 14-4-2024 5:10|Cultura, Sezione 3|0 Commenti

MILANO – Dati recenti della toponomastica rilevano che in Italia solo il 4% delle strade è dedicato alle donne, più in specifico nei capoluoghi di regione le intitolazioni a figure femminili che non siano sante sono meno di mille sulle oltre 24mila totali. Verrebbe da aggiungere che se l’arredo dello spazio pubblico è espressione della memoria collettiva, quest’ultima sia quanto meno lacunosa a fronte dei numeri censiti. È altresì riscontrabile che alcuni monumenti o intitolazione di strade o piazze rimandano ad un passato non più condivisibile e, in nome di una sorta di ritrovato revanchismo storico, sono divenuti negli ultimi anni bersaglio da imbrattare con vernice e slogan di condanna, se non addirittura da distruggere. Azioni simili, registrate anche in contesti europei ed extraeuropei, hanno finito col riaccendere il dibattito sull’opportunità di rimuovere o meno tali opere o di cambiare le intitolazioni di luoghi pubblici.

La Maison des Esclaves

Le immagini di folle inferocite ed in rivolta mentre abbattono statue di dittatori e tiranni fanno parte della nostra memoria storica e si collegano ad eventi drammatici o comunque bellico/rivoluzionari del passato; attualmente, invece, queste azioni sono opera di dimostranti o di esponenti di movimenti di protesta. La statua di Cristoforo Colombo – solo per citare un esempio famoso – assurta ormai ad espressione del colonialismo europeo e dell’avida crudeltà dei conquistadores, è stata spesso imbrattata o danneggiata. Il nocciolo della questione sta proprio nel fatto che non possono essere la rabbia, l’odio o la vendetta la chiave di lettura delle testimonianze storiche; e, del resto, il termine monumento deriva dal latino monumentum (ricordo), collegato a sua volta al verbo monère (ricordare).

Giovanni Paolo II sulla Porta degli Schiavi

Ne consegue che le opere collocate in spazi pubblici o museali non dovrebbero essere rimosse o sostituite, ma molto più semplicemente contestualizzate; basterebbe aggiungere dei totem per illustrarne in dettaglio e senza pregiudizi il periodo di appartenenza nella completezza dei suoi aspetti. L’intransigenza dell’iconoclastia non può essere una scelta delle democrazie moderne, in primo luogo perché, se così guidati, dovremmo distruggere gran parte del patrimonio artistico, ma soprattutto perché evolve, trasformandosi inevitabilmente col passare del tempo, il concetto stesso di opera d’arte sia nelle forme espressive sia nei valori che simboleggia. Chi oggi non considererebbe “monumentum”, e pertanto monito perenne per l’umanità, le macerie di un Kibbutz raso al suolo dai terroristi di Hamas o quelle degli ospedali della striscia di Gaza colpiti da missili israeliani o degli edifici civili di Kiev sventrati dai bombardamenti russi o comunque quelle di un qualsiasi altro scenario mondiale di guerra.

Occorrerebbe, in definitiva, interrogarsi sul senso del monumento, privilegiandone il significato primario di monito per il futuro e di ricordo critico del passato, senza strumentalizzazioni che ne facciano un pretesto per apoteosi trionfalistiche di parte. Le coste dell’Africa atlantica sono disseminate di luoghi che evocano la tratta degli schiavi: tra le palme ed il mare si stagliano resti di fortezze dei colonizzatori europei e si percepisce lo strazio delle vite soffocate di più di 12 milioni di donne e uomini africani strappati alle loro terre d’origine per essere imbarcati sulle navi negriere. L’isola di Gorée (Senegal) è dal 1978 patrimonio Unesco dell’Umanità per essere stata, dal XVI al XIX secolo, il più grande centro di commercio di schiavi; nella cosiddetta “Maison des Esclaves” (la casa degli schiavi) sono transitati milioni di africani incatenati per essere deportati nelle Americhe. In questo edificio ogni pietra trasuda secolari sofferenze e spietati retaggi coloniali, ma un elemento architettonico in particolare lascia senza parole: una spoglia porta che dà sul mare e attraverso cui gli schiavi venivano imbarcati direttamente sulle navi oppure buttati in acqua se troppo deboli.

Manifestanti abbattono la statua di Edward Colston

Il busto di Cristoforo Colombo vandalizzato

Di fronte a questo monumento non c’è ideologia che tenga, dovrebbe solo scaturirne una ferma presa di distanza da qualsiasi logica politico-economica che ponga l’uomo contro l’uomo e che ha comportato, in quei secoli, per l’America la desertificazione dei suoi territori trasformati in latifondi da monocolture e la “desertificazione umana” con la decimazione di intere popolazioni ridotte a manodopera servile per l’Africa. Non può sembrare quindi una vittoria il gesto dei manifestanti, fautori del “Cancel Culture”, in protesta per la morte di George Floyd (assassinato durante il suo arresto da un agente di polizia a Minneapolis), che hanno gettato nel 2020 la statua del commerciante e mercante di schiavi britannico Edward Colston nelle acque del porto di Bristol.

L’eco del tonfo in mare dei 2,64 metri di bronzo del monumento in questione avrà raggiunto sicuramente ogni angolo del mondo, ma non ha né cancellato le colpe di Colston, né l’olocausto della tratta degli schiavi, né tanto meno riuscirà fermare il nuovo traffico di esseri umani nelle acque del Mediterraneo. Un approccio critico – storico potrebbe indubbiamente aiutare.

Adele Reale

Nell’immagine di copertina, l’isola di Gorée (Senegal), dal 1978 patrimonio Unesco dell’Umanità

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