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Perugia e l’Umbria celebrano Raffaello

di | 2020-02-29T11:55:06+01:00 1-3-2020 6:10|Arte, Cultura, Sezione 3|0 Commenti

PERUGIA – Perugia commemorerà il quinto centenario della morte di Raffaello non con una, ma ben tre mostre. La prima, in aprile a palazzo Baldeschi, dal titolo “Raffaello in Umbria e la sua eredità”; la seconda, da giugno a ottobre, a palazzo della Penna, “Fortuna e mito di Raffaello in Umbria”; la terza, in ottobre, alla Galleria nazionale dell’Umbria, “La fortuna della Pala Baglioni di Raffaello nelle copie perugine”.

Le tre iniziative che si inseriscono, organicamente, nel programma complessivo “Raffaello in Umbria”, sono state presentate da Cristina Colaiacovo (presidente di Cariperugia), Leonardo Varasano (assessore alla cultura del Comune), Mario Rampini (presidente Accademia di Belle arti), dal professor Francesco Federico Mancini e dal restauratore Giovanni Manuali. Tutte e tre le esposizioni si annunciano interessanti per la qualità e la varietà dei pezzi esposti – dipinti, incisioni, disegni, cara che, vetri dipinti – ma una forte curiosità la susciteranno pure due dialoghi, recitati da attori, il primo dei quali tra il Perugino e Raffaello ed il secondo tra il Perugino, Giovanni Sanzio padre di Raffaello e quest’ultimo. Giovanni Sanzio, pittore e intellettuale della corte dei Montefeltro di Urbino, alla sua morte, nel 1494, affidò il figlio, già orfano di madre, ad uno dei suoi più stretti collaboratori (Evangelista di Pian di Meleto), perché lo portasse a Perugia dall’artista del pennello più in voga del momento, Pietro Vannucci, detto il Perugino. Raffaello, che aveva intorno ai 14 anni, a Perugia rimase, non si sa con certezza se continuativamente o meno, almeno fino al 1504.

E’ di questo anno, infatti, una lettera di raccomandazione che Giovanna Feltria – figlia di Federico da Montefeltro, duca di Urbino, sorella di Guidubaldo, duca in carica, moglie di Giovanni della Rovere e madre di Francesco Maria, che erediterà alla morte dello zio il ducato urbinate -, indirizzò al gonfaloniere a vita di Firenze, Pier Soderini, perché accogliesse al meglio nella “città del Giglio”, l’ormai emergente se non affermato, artista. Il quale aveva non solo già effettuato lavori nella bottega del Perugino (lo avrebbe aiutato anche a Fano, nella chiesa di Santa Maria Nuova, ma soprattutto nel capoluogo umbro, collaborando agli affreschi del Collegio del Cambio e nella cappella di San Severo) ed anche in collaborazione col Pinturicchio (nella Libreria Piccolomini, annessa al Duomo di Siena), ma fin dal 1500 veniva definito “magister”. Lo documenta l’atto notarile di pagamento della Pala Baronci o L’Incoronazione di San Nicola di Tolentino (firmata in basso: Raphael Urbinas pinxit), per la cappella di famiglia del committente nella chiesa di Sant’Agostino, in Città di Castello, in cui viene indicato come “Magister Rafael de Jhoannis Santi de Urbino”.

L’anno prima Raffaello aveva dipinto, per la Confraternita della Santissima Trinità, Il Gonfalone della Santissima Trinità, unica opera rimasta nel centro altotiberino (nella Pinacoteca comunale) e con tanto di autografo, delle quattro, di cui si ha notizia, che completò per istituzioni o casati dell’Alta Val Tiberina. Sempre per una famiglia tifernate, i Gavari, l’urbinate compose una “Crocifissione” per una cappella della chiesa di San Domenico. Di questo olio su tavola, passato per varie mani (francesi prima, italiane poi, quali quelle del Principe di Canino) e smembrato, resta la parte principale alla National Gallery di Londra e due predelle, una delle quali a Lisbona. Del 1504 è invece l’opera più importante “Lo Sposalizio della Vergine”, eseguito per la chiesa di San Francesco di Città di Castello (lo aveva commissionato la famiglia Albizzini, nella cappella dedicata a San Giuseppe) e poi finita alla Pinacoteca di Brera. Qui il pittore si firma addirittura al centro del dipinto: sopra l’arco centrale del tempio che fa da sfondo al matrimonio tra Maria e Giuseppe: scrive infatti in stampatello: “Raphael Urbinas” e aggiunge pure la data: “MDIIII” (1504). La tela, preda di guerra dei francesi nel 1798 (ad impossessarsene fu il generale bonapartista Giuseppe Lecchi) venne acquistata nel 1803 da Jacopo Sannazzaro, il quale per legato testamentario la lasciò all’ospedale Maggiore di Milano. Nel 1806 il viceré Eugenio de Beauharnais (fratello di Giuseppina, moglie di Napoleone) ne fece dono alla Pinacoteca di Brera. Città di Castello ricorderà il pittore nel Museo del Duomo con una mostra che si aprirà nel prossimo ottobre.

Ad Assisi è in corso la mostra “Le opere di Raffaello nelle antiche stampe dell’Umbria”, mentre a Spoleto, in ottobre, è in programma “Un affascinante enigma raffaellesco: la Trasfigurazione della chiesa di San Domenico a Spoleto”. A Gubbio, infine, nella Loggia dei tiratori, da aprile ad ottobre, esposizione di una cinquantina di opere che sottolineare l’influenza del Sanzio nei lavori di ceramica. Dell’attività giovanile e non solo, di Raffaello sul territorio umbro sono rimasti soltanto il Gonfalone di Città di Castello (purtroppo, come ha sottolineato Mancini, in condizioni “disastrose”) e l’affresco di San Severo. Ma gli storici dell’arte sottolineano come ben dodici fossero le opere dell’Urbinate dipinte per committenti “nostrani”ed alcune figurano nella lista dei piú grandi capolavori dell’artista: la pala Baglioni (scippata dal cardinale Borghese ed ora a Roma), la Madonna Conestabile, lo Sposalizio della Vergine (a Brera), la pala Oddi (Roma), la pala Ansidei (a Londra), per citarne alcuni. A Perugia sopravvive l’affresco nella chiesa di San Severo (non asportabile, per fortuna), mentre gli altri lavori, attraverso i secoli e varie vicissitudini sono finiti in vari musei da Roma a Firenze, da Parigi a Londra, fino negli Usa ed in Russia.

Alle opere andrebbe aggiunta anche la Madonna di Foligno, commissionata per la propria cappella in Roma, dal mecenate Sigismondo dei Conti, appunto folignate: l’opera verrà esposta a Foligno il 23 settembre.

 Elio Clero Bertoldi

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