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Cotognata, il vero sapore della tradizione

di | 2019-11-01T13:42:01+01:00 3-11-2019 6:15|Enogastronomia, Sezione 4|0 Commenti

ENNA – Ci sono doni più preziosi di altri: sono quelli pensati e preparati in casa con sapienza e generosità d’animo. Uno di questi è la cotognata, marmellata solidificata di mele cotogne. Già sapere cosa siano le mele cotogne è quasi un privilegio: frutti autunnali gialli, duri e aspri, dal profumo molto raffinato, con una forma che ricorda sia le mele che le pere (ad onor del vero esiste anche una variante delle pere cotogne) e ricoperti di una buccia pelosa.

Il loro aspetto non è certamente fra i più accattivanti ma in realtà sono una vera manna dal cielo. Pare che l’origine della coltivazione di questi frutti si possa far risalire ai babilonesi, apprezzati dagli antichi romani – vengono citati anche da Catone e Virgilio – e utilizzati nel Medioevo e nel Rinascimento come condimento per arrosti e selvaggine. Oggi, questi alberi sono piuttosto rari da trovare e vengono coltivati principalmente nelle regioni a clima mite, in Italia soprattutto in Puglia e Sicilia. La mela cotogna possiede molte proprietà benefiche, ma non è consigliabile da mangiare cruda perché molto astringente; è invece ottima come marmellata o mostarda e accompagna ancora oggi carni e formaggi o viene servita con vini liquorosi a fine pasto.

La ricetta più famosa e tradizionale è però la cotognata, una sorta di marmellata, importata sulle nostre tavole durante la dominazione aragonese – codonyat in catalano, dulce de membrillo in spagnolo – e si gusta in alcune sue varianti persino in alcune regioni dell’America del Sud. La Sicilia, terra di mezzo, di tutti e di nessuno, da sempre imbastardita dalle più svariate dominazioni, si è comunque distinta perché ha saputo amalgamare l’eterogeneità di usi e tradizioni rinnovandole e rendendole proprie. E in fondo, l’ancestrale ospitalità siciliana, figlia ed erede del suo passato, si può ritrovare tutta sulle sue tavole ed anche in questo dolce così prezioso che per tradizione non può essere tenuto solo per sé tanto da essere considerato un “dolce condiviso”.

La tradizione vuole che la cotognata venga versata ancora calda nelle cosiddette “furmi“(alvarette o alveolette a seconda del dialetto), antichi stampi di terracotta invetriata o smaltata con impressi decori religiosi quali ‘u cori di Gesù’, a Madunnuzza, il monogramma di Cristo o di Maria, il pesce, l’uva, i simboli dei martiri, ma anche forme ispirate al mondo animale o presepiale e ancora elementi floreali, geometrici, mascheroni o grottesche. Ogni forma era un simbolo di buon auspicio e cercava di dare nobiltà e significato anche al nutrimento per il corpo. Una volta rappresa, la cotognata era disposta nei panari, ceste di vimini che venivano ricoperte con il virgineo velo delle spose quasi a suggellarne la sacralità, per poi essere esposta ad essiccare al tiepido sole ottobrino. Essendo un dolce autunnale era uso comune far trovare la cotognata ai bambini nei tabbarè, vassoi di terracotta, insieme a biscotti, frutta secca e di stagione e qualche altro regalino il giorno di Ognissanti o dei morti.

Chi si cimenta ancora oggi nella sua preparazione, rigorosamente in casa, solitamente si attiene a ricette tradizionali ereditate dalle nonne, ricette che richiedono pochi ingredienti –mele, zucchero e poco più- ma una tempo piuttosto lungo di preparazione; consigli e varianti si possono trovare anche su internet, ma comunque la si prepari, la vera ricetta mantiene sempre un ingrediente: il pensiero d’affetto verso coloro per cui si cucina; solo quel pensiero dedicato può giustificare il lungo e paziente tempo passato a preparare questo delizia della tradizione. Con queste parole la mia amica ha accompagnato la cotognata che mi ha donato: “Ogni riminata (mescolata) era un pensiero per te!” e questo rende prezioso il dolce e l’amica.

Alida Brazzaventre

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