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Chiara Zaffina, poetessa e medico, accusa il sistema sanitario

di | 2024-02-08T18:40:58+01:00 11-2-2024 5:20|Cultura, Sezione 5|0 Commenti

PAVIA – Ogni poeta è cieco al mondo e descrive solo ciò che vorrebbe vedere. Oppure ne denuncia le brutture e chiede aiuto. E’ così che Chiara Zaffina, giovane medico che si sta specializzando in neurologia all’ospedale Mondino di Pavia, ogni sera prende la penna e scrive, anzi descrive la disumanità che vede quotidianamente nelle corsie e tra i malati, una disumanità della quale, seppur involontariamente, fa parte. Con l’ultima sua poesia, intitolata “Sul burnout delle professioni sanitarie”, si è aggiudicata il secondo posto a “Contaminazioni”, concorso di poesia bandito dall’Università di Pavia, una denuncia pubblica sull’organizzazione del lavoro negli ospedali, ridotto ad una catena di montaggio tesa solo a tenere in piedi se stessa ma che non ha attenzione per i destinatari della cura: le persone che soffrono.

Chiara Zaffina

La dottoressa Zaffina, che ha 28 anni, scrive da sempre e ha pubblicato la prima raccolta di poesie (“Sfinimenti”, ed. L’Erudita, 2017), a 22 anni, ama fare ogni cosa allo stesso modo in cui cura le parole: bene. “Avevo il mito della professione di medico – spiega – e mi sono scontrata con una realtà dura, molto lontana dal sogno che avevo di dedicarmi agli altri”. In ospedale Chiara si è trovata inserita in un meccanismo il cui principio ispiratore risiede nel risparmio di risorse e di tempo con la conseguenza che le terapie vengono tagliate, le visite sono sempre più brevi e i malati vengono trattati come numeri. Nella poesia con cui ha vinto il concorso, ispirata a “Se questo è un uomo” di Primo Levi, la malattia che toglie dignità a uomini e donne, la loro “feroce ricerca di conforto” si consuma nella “mano stregata dal guanto che trasforma il fuoco umano in gelidi dati”.

Sono dure le parole della dottoressa Chiara. Di lei dice Claudio Caldarelli, poeta riconosciuto con molti titoli tra cui l’ultimo è “Ossi di seppia” 2024: “Versi non facili – commenta  – e per questo bellissimi, escono dalle gabbie che sostengono la tragedia e la rendono umana nel dolore e nella sofferenza empatizzata. Così ti si iniettano nelle vene veloci, glabri, senza orpelli e virtuosismi barocchi, come un unico corpo di dolore spezzato. Versi senza catene – aggiunge – liberi e veri di verità, che scaturiscono dalla vita vissuta quel giorno che è tutti i giorni, vissuta un minuto prima”.

Chiara Zaffina

E la durezza di quei versi è direttamente proporzionale alla delusione che Chiara ha provato al rendersi conto che il suo sogno di dedicarsi agli altri era stato dirottato in un progetto aziendale il cui obiettivo non era e non è far stare bene i malati ma far quadrare i bilanci. E per far quadrare i bilanci tutto deve scorrere su uno sterile tabellino di marcia che anche lei, giovane dottoressa con la passione dei versi e che si voleva dedicare al prossimo, deve osservare, cui deve contribuire con la sua efficienza perché in questo freddo meccanismo “soltanto mi preme – scrive lei – una firma veloce sul foglio del consenso”. Nella poesia di Chiara c’è il disagio di medici e infermieri, di tutti quelli che pensavano di poter fare qualcosa per gli altri e si sono ritrovati imbrigliati in un sistema infernale di turni, cambi, orari, prescrizioni, medicazioni, tutto molto lontano dal sollievo, anche da quell’effetto placebo, che dovrebbe portare la cura dell’altro ma anche quella di se stessi e della propria professione, della propria vocazione. I professionisti della cura ridotti a meri esecutori di ordini, con a stento il tempo di fare una carezza ad un paziente, o di dirgli una parola.

Di questo scrive la dottoressa Chiara e sa di cosa parla. Di esperienze ne ha avute. In Polonia si è anche occupata dei rifugiati dall’Ucraina. “Avevamo pochi mezzi e le situazioni più difficili – racconta – ma lì potevo occuparmi di chi stava male e, insomma, fare veramente il medico”. Perché si dà il caso che la dottoressa Zaffina questa professione la vuole fare ma come la intende lei: veramente, con le intenzioni, con il cuore. “E allora – annuncia – appena finita la specializzazione andrò in un ospedale in Tanziana dove mi dedicherò alla cura dei malati”. E si porterà dietro penna e carta perché la poesia è la via di fuga di cui ogni tanto ha bisogno per evadere da quel mondo del quale da sempre sente il dolore e del cui amore universale ha nostalgia e bisogno, tanto da volerlo rincorrere e ricreare con le parole. Come ogni poeta, ed anche lei, sa fare. Come ogni medico, e lei, dovrebbe poter fare.

Gloria Zarletti

Sul burnout nelle professioni sanitarie

Considerate se questo è un uomo
Inerpicato su metalli sgraziati
Sbrigativamente manipolato
Tatuato di sangue secco
Ordigno di plastica ed aghi
Formiche per lenzuola sfatte
Che solo ai morti si confà
La geometria solenne
Lingua gialla e unghie di terra
Le corsie cisterne di lamenti

Considerate se questa è una donna
Radi i capelli intrisi di pianto
detestabile immobilità
Non voler più pisciare
Senza regole del femminile
Che intrappolino suoni e odori
Feroce ricerca del conforto
Nella mano stregata dal guanto
Che trasforma il fuoco umano
In gelidi dati

Povera carne dei miei sogni
Se non siete più uomini o donne
È perché già io prima di voi
Da molto tempo
Non lo sono più.
Torcete i vostri volti e fuggitemi
Che suonano a me le vostre voci
Come a una bestia da soma
Il volo della mosca
E così pigramente infastidita
Mi appunto due parole
Pregando che non parliate d’altro
Che dell’indispensabile ai moduli
Infine
quando una vecchia piange
vuole il marito
che cosa ha
quando tornerà a casa
Imperturbabile come un boia
Soltanto mi preme
Una firma veloce
sul foglio del consenso

Meditate che questo è.
Qualcun altro vi prego
Li aiuti
Ci aiuti.

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