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Al ginnasio di Todi esordio con battuta

di | 2019-09-16T01:51:47+02:00 15-9-2019 6:00|Attualità, Sezione 1|0 Commenti

TODI (Perugia) – Todi, anni Sessanta. Varco la soglia dell’ex convento francescano di San Fortunato, sede del liceo classico “Jacopone da Todi”, con uno stato d’animo contrastante: da un lato l’ansia, se non la preoccupazione, di un corso di studi sicuramente impegnativo; dall’altro l’orgoglio, comunque contenuto, di essere diventato – a 14 anni – grande. Mentre avanzo nel chiostro, osservo nel cortile interno la rete da pallavolo e una buca di sabbia per il salto in lungo ed in alto, nell’angolo che conduce alla grande palestra. “Qui ci divertiremo”, penso. Poi abbasso lo sguardo sui pantaloni. Per la prima volta li indosso lunghi. Quelli corti, portati fino alle medie, li ha ritirati dai cassetti dell’armadio, con mia profonda soddisfazione, mia madre, qualche giorno fa. I calzoni fino alla caviglia rappresentano il simbolo del mio passaggio ad una età diversa. Come nell’antica Roma quando i giovani lasciavano la toga “pretesta”, per infilarsi la “virilis”. L’addio all’infanzia, insomma.

Indosso, per l’occasione, anche una giacca bianca: “Trés chic”, ha commentato, salutandomi con un sorriso incoraggiante, mia sorella maggiore. Somiglia, l’elegante capo, a quello sfoggiato, anche se non è un doppiopetto, da Humphrey Bogart in “Casablanca”, il film con la bellissima Ingrid Bergman. Mi sento un damerino, salendo le scale che portano all’androne e al corridoio della scuola, alla faccia di Franco, che, incrociandomi, mi ha apostrofato, bell’amico, con un “Sembri un cameriere”. “Pura invidia”, gli ho replicato, secco. Affronto, con un sorriso sforzato, le forche caudine organizzate come tradizione dai diplomandi, che rifilano “scoppole” (schiaffi sulla nuca) e “nocchini” (colpi con le nocche del pugno chiuso) per dare il benvenuto, a modo loro, a noi pivelli. Il bidello indirizza tutti i nuovi iscritti, ancora le sezioni non sono state formate, nell’aula magna. Il primo giorno di scuola superiore nello spazio più rappresentativo, più bello ed importante del complesso, dove affronteremo, a tempo debito, certo, gli esami di maturità: un onore da far gonfiare il petto.
Ci conosciamo quasi tutti – Luciano, Enrico, Piero, Carlo, Marco, Antonio, Ezio, Enzo, Massimo, Tommaso, Angelo, con i quali ho frequentato le elementari o le medie o ho giocato a pallone o a basket nell’orto del vescovo, sono gli amici più stretti -; con gli altri, che vengono da Marsciano, Massa Martana, Acquasparta e dalle frazioni, faremo presto comunella. Li vedo tutti svegli, vispi, estroversi. Forse frenati e intimiditi dagli ambienti ampi e sconosciuti dell’antico convento, non vociamo nemmeno. Risatine di nervosismo, commenti a voce bassa, sguardi interessati lanciati alle compagne, tutte col grembiule nero ed il fiocco bianco (noi no), pacche sulle spalle, ma un contegno tutto sommato rispettoso e dignitoso.
Suona la campanella della prima ora e prendiamo posto, alla rinfusa, sui banchi. Le femmine, però, si dispongono sulle file di destra, noi maschi, invece, veniamo schierati sulla sinistra. Una sorta di “apartheid”, una discriminazione scolastica, frutto di una circolare del ministero dell’istruzione. Il saluto di inizio anno lo reca l’anziano preside, alla soglia della pensione, Valentino Valentini. Persona squisita, paterna e paciosa. Piccolo di statura e coi capelli bianchi. Riservato e composto nei modi. Poche frasi di accoglienza, un accenno, carico di orgoglio, alla storia dell’istituto, l’invito pressante a studiare con impegno, soprattutto le materie inedite per noi, a cominciare dal greco, la più ostica, lo spauracchio. “Ora vi lascio – conclude il suo breve discorso – nelle mani della professoressa di Scienze naturali, Chimica e Geografia”. La prof, una signora magra, decisa, volitiva, sale in cattedra, senza accomodarsi. Noi, intanto, ci siamo seduti. “Alzatevi in piedi”, ordina. Ci guardiamo perplessi, scambiando occhiate furtive, interrogative, come a comunicarci “E adesso che vuole, questa?”. “Recitiamo, tutti insieme, una preghiera” – annuncia. E comincia a pronunciare le prime parole dell’Ave Maria. Tra di noi, basiti, c’è chi ripete l’orazione declamandola, soprattutto le ragazze, chi – e tra questi, io – biascicandola o facendo finta, aprendo e chiudendo la bocca, ma senza far uscire alcun suono.
Quasi tutti, almeno quelli abitanti all’interno delle tre cerchia di mura cittadine, frequentavano, come me, l’oratorio di don Angelo Alcini in via del Seminario o si ritrovavano in Borgo da don Vincenzo (la cui struttura offriva un bel campetto di calcio), mentre quelli di via Piana bazzicavano la parrocchia di San Nicolò. La nostra insofferenza, la nostra ostilità, quindi, non poteva essere considerata un rifiuto della religione. Non ci sembrava giusto, piuttosto – ora che eravamo approdati ad una scuola superiore – che ci costringessero a ripetere a pappagallo le orazioni come i bambini delle elementari. Comincia la lezione. Non rammento su quali temi, su quali argomenti vertesse. Al suono della campanella, segnale della fine dell’ora, la prof nell’affidarci i compiti (ancora non era stato fissato l’orario definitivo), inizia col dire: “Per la prossima lezione por-te-re-te…”. Termina la parola sillabata e si ferma un attimo, per verificare, sfogliandole, qualcosa tra le sue carte sparse sulla cattedra. Così, uno di noi, dagli ultimi banchi, coglie il momento della pausa per far esplodere, erompere, sbottare il sentimento di avversione, di dispetto nutrito e covato, da tutti per l’intera ora, con una spiritosaggine: “Il Vangelo e la corona vanno bene?”. La prof alza la testa di scatto e lo fulmina con uno sguardo gelido, mentre i più coraggiosi o irrispettosi, in aggiunta, sghignazzano. “Uscita infelice…”, scandisce, con freddezza, l’insegnante. “Questa ce la fa pagare”, borbotto tra me e me. Temo per il mio compagno, e anche per tutti noi. Potrebbe vergare una nota di gruppo o potrebbe decidere l’invio, dell’intera scolaresca, accompagnata dal bidello, dal preside per una lavata di capo. Con conseguenze facilmente immaginabili una volta tornati a casa: i padri, all’epoca, non facevano passare in cavalleria eventuali birichinate, marachelle o comportamenti, in particolare disciplinari, non consoni. L’insegnante, al contrario e inaspettatamente, sorvola con “nonchalance”. Indica i compiti da fare, i testi da portare. Nessun altro accenno all’impertinente facezia. Tiro un respiro di sollievo. “Non è un’arpìa: ha buon cuore”, rifletto.
Alla fine dell’orario canonico della giornata, non c’è uno studente dell’istituto che non sia a conoscenza – dalle chiacchiere scambiate nella manciata di minuti della pausa per la colazione – della battuta sarcastica del nostro compagno. L’autore viene accerchiato dai grandi. Niente scappellotti, niente nocchini, stavolta. Piuttosto parole di complicità, di incoraggiamento, di plauso, addirittura. Con quella “boutade” si è guadagnato il titolo di protagonista della giornata ed il rispetto dei “vecchi”. E senza pagare – particolare di non piccolo momento – alcun prezzo a livello disciplinare.
Ora possiamo sciamare, giù per la grande, ampia scalinata di San Fortunato, felici e contenti e raccontare, agli amici e in casa, un primo giorno di scuola, non traumatico. A tavola rispondo, alla curiosità dei miei, con frasi laconiche. Li metto a parte dello stretto indispensabile. “Tutto bene… Abbiamo un insegnante giovane di Greco, si chiama Menegol, viene dal Nord. Sembra simpatico. La Crespi per il francese. Ah, c’è pure la zia di Ezio (mio cugino paterno, n.d.a.) a Scienze”. Sull’incidente dell’irriverente motto di spirito, indirizzato proprio a lei e che sarebbe potuto costare caro, glisso. E mi giustifico, da solo: cavolo, qualche omissione, qualche silenzio, qualche segreto, ora che sono grande, me lo potrò permettere, no?
Elio Clero Bertoldi
Nell’immagine di copertina, il Liceo Ginnasio “Jacopone da Todi”

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