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Vi cuntu nu cuntu ca fintu nun è…

di | 2019-11-03T10:48:30+01:00 3-11-2019 6:00|Attualità, Sezione 1|0 Commenti

ENNA – Non so come sono riuscita a sopravvivere ai racconti terrificanti di mia nonna. Forse per l’opera mitigatrice del marito che nei momenti di paura mi offriva protezione sotto il suo ampio scialle nero, forse per grazia divina. Sta di fatto che alcuni dei suoi cunti non mi hanno fatto chiudere occhio per molto molto tempo. Nelle sere d’estate, in campagna sotto il cielo stellato, ci compiaceva con avventurose epopee di principesse, fate, re e ranocchi ma nelle notti di tempesta e senza luna si sbizzarriva in racconti gotici le cui trame sembravano uscire dalla mente di Edgar Allan Poe. Il tempo li ha un po’ sfumati, acquerellati ma uno è dipinto a tinte forti e pregnanti sulla mia memoria; ce lo raccontò la sera dell’ 1 novembre, dopo aver accesso lumini, ceri e candele davanti ai ritratti di defunti che popolavano le pareti verdeacqua dello stanzone e aver disposto sul comò un bicchiere d’acqua con una fetta di pane. Con uno scatto felino si accomodò sulla sua sedia e fece segno, a me e mio fratello, che l’ora era giunta. E io ammamaluccuta prestai atto di obbedienza e sottomissione alle sue parole: lei il cavaliere, io il vassallo.

Abbassò la voce, si guardò intorno e iniziò così: “Carusiddi, vi cuntu nu cuntu ca fintu nun è…”. I personaggi erano allineati nella sua testa e pronti ad entrare nella mia con un travaso liquido e oleoso. E in quel travaso ci entrarono quella volta tutti i nostri parenti morti, i vicini di casa e i conoscenti che erano trapassati. Ci disse, che allo scoccare della mezzanotte, i morti si sarebbero messi in cammino in una lunga processione verso le loro case per far visita ai vivi, accarezzarli durante il sonno e per portare i regali a noi piccini. Per questo aggiunse, ammonendoci con il dito che l’artrosi aveva piegato a mo’ di uncino, di non chiudere mai fitto fitto la finestra. E i miei occhi miopi guardavano alla finestrella posta di fronte a me che socchiusa lo era davvero e sentii una scarica sulla mia schiena.

La paura si mise a lottare con la curiosità; ero dilaniata dal dubbio se tapparmi le orecchie e scappare sotto le braccia benevoli del nonno, già mezzo addormentato davanti al suo bicchiere di vino e al suo solitario, o stare incollata a quella sedia per saperne di più. Restai e azzardai a chiedere persino spiegazioni: come avrebbe fatto quel tizio le cui gambe erano state maciullate dal motozappa mentre lavorava nei campi o quell’altro, il cieco, che in guerra aveva perso la vista, a giungere a destinazione. Lei, beffandosi della mia ingenuità, rispose che era un mistero per i vivi, ma che loro potevano tutto, sentivano tutto e comunicavano con noi attraverso i sogni. A queste parole ebbi un sussulto, se sentivano tutto, chissà magari c’era speranza per la Barbie che avevo visto nella bancarella in piazza tra il fumo delle caldarroste e il tizio che vendeva millicucchi.

La speranza del balocco e l’attrazione che su di me esercitano da sempre le storie mi tennero incollata alle sue labbra, finché il racconto terminò con il morto dalla testa mozzata che un passante giurava e spirgiurava di aver visto, essendo ancora in giro dopo lo scoccare della mezzanotte. È inutile dire che la notte passò quasi insonne, sepolta da una coltre di coperte per proteggermi dalla paura e dalle carezze dei cadaveri e quando mi destai ebbi la certezza che i miei morti, in quanto ad udito erano messi maluccio, vecchi com’erano, perché mi fu recapitato un pigiama e un pera di marzapane.

Andai, comunque, al cimitero per la consueta visita dei morti accigliata per quello sgarbo, e mentre la nonna e i miei genitori sostavano lungamente davanti alla tomba di famiglia, io giravo, in compagnia di una mia cugina più grande, in quel dedalo di loculi, tra croci e angeli, tra marmi crepati e solitari dove una mano generosa aveva posto un garofano e lastre lucide ricoperte di ghirlande floreali. L’odore dolciastro di crisantemi, della cera dei lumini, il vociò sommesso delle donne sedute sulle seggiole di legno pieghevoli intente a recitare il rosaio riaffiorano ancora adesso, ora che la schiera dei morti si è rimpolpata di altri cari. La visita al cimitero durava parecchie ore spesso fino al tardo pomeriggio quando il suono della sirena annunciava la chiusura del portone centrale, i grandi si concedevano mettendo a posto le seggiole e i lumini, mentre noi bambini venivamo sollevati per baciare la foto del defunto a ringraziamento dei doni ricevuti.

L’indomani, di buon mattino, ci si recava nuovamente al camposanto ed era consuetudine portare un fiore anche ai parenti prossimi. Dopo la messa celebrata all’aperto sotto il sole tiepido di novembre si tornava a casa e finito il pranzo spesso gli uomini tornavano nelle campagne a raccogliere le olive. Ma non c’era uomo o donna che si sottraeva alla commemorazione dei defunti, un gesto di amore e rispetto, mentre per noi bambini era una festa tanto attesa quanto quella natalizia.

Il giorno di Ognissanti del 1985 mia nonna per l’ultima volta preparò un bicchiere d’acqua, una fetta di pane, accese un lumino in più e aprì del tutto la finestra e sedutasi nella sua solita sedia, col dito curvo, le mani grigie e nodose, ci raccontò l’ultima storia sui morti e di quell’uomo con lo scialle che beveva sempre un bicchiere di vino mentre faceva un solitario. Poi si mise a mormorare delle preghiere e con un filo di voce aggiunse che il nonno le era venuto in sogno sofferente perché i vivi lo tenevano intrappolato e di lasciarlo andare. Mi guardò con gli occhi annacquati, sapeva quanto importante fosse per me, mi coprii con lo scialle nero che portava ancora il suo odore e aprii la mano. Ma credo che non sia andato molto lontano se, ancora oggi, insieme alla nonna, che lo seguì tre anni dopo, sento una morsa al petto uguale a quella di tanti anni fa.

Tania Barcellona

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