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Un amore rovente e una scia di morti ammazzati

di | 2019-01-11T20:37:16+01:00 13-1-2019 6:20|Cultura, Sezione 5|0 Commenti

GUBBIO (Perugia) – Cappa e spada, intrighi e crimini, amore e morte, il tutto con coinvolgimento di papi, imperatori, re e duchi. La tragica storia di Paolo Giordano Orsini (a sinistra), duca di Bracciano (1541-1585) e della nobildonna di Gubbio Vittoria Accoramboni (1557-1585), durò poco, ma fu ricca di episodi intensi nel bene e nel male.

 

L’affascinante eugubina, figlia del giurista Claudio e della nobildonna romana Tarquinia Paruzzi Albertini, si era trasferita ancora fanciulla dalla natia Gubbio a Roma, dove era stata data in moglie, a sedici anni appena, a Francesco Peretti, amato nipote dell’allora cardinale Felice (noto come Montalto e diventato poi pontefice col nome di Sisto V). Nonostante la giovane età, Vittoria si era creata una cerchia di amicizie, all’interno delle quali veniva accreditata non solo per la bellezza virginale, l’eleganza, la cultura, ma pure per la verve poetica. Come e quando esattamente fosse scoccata la scintilla dell’amore con Paolo Giordano non è chiaro. Il duca, di sedici anni più grande di Vittoria, era rimasto vedovo dell’amatissima moglie Isabella de’ Medici, terzogenita di Cosimo I (e parente di casate come gli Asburgo, i Lorena, gli Este), anche se una pubblicistica dell’epoca invece della morte per malattia (come attestato da studi approfonditi e recenti), attribuiva il decesso della nobile fiorentina addirittura ad un uxoricidio per strangolamento, ad opera appunto del duca braccianese, spinto – secondo le malelingue – dal tarlo di una esagerata gelosia.

 

Da giovane l’Orsini, rimasto orfano del padre Girolamo, era stato allevato dalla madre Silvia Sforza di Santafiora, risposatasi con Lelio dell’Anguillara; poi dallo zio materno Guido Ascanio di Santafiore, potente cardinale camerlengo. Dopo essersi messo in luce in battaglia, contro Fernando Àlvarez duca d’Alba ed essere stato investito formalmente del titolo di duca di Bracciano (nel 1560, da Papa Pio IV), si era visto nominare governatore delle Marche col compito di sgominare la pirateria ottomana sulle coste adriatiche; dal re Francesco I di Lorena aveva ottenuto l’onore del collare dell’ordine di San Michele, istituito dai reali di Francia; aveva combattuto con eroico vigore a Lepanto, contro i turchi, dove era rimasto ferito difendendo la galea del comandante della spedizione, don Juan, tanto da essere nominato dal padre di quest’ultimo, l’imperatore Filippo II di Spagna, comandante generale della fanteria. Dai suoi, Paolo Giordano aveva ricevuto una educazione principesca: non solo nelle armi e nella letteratura (suo maestro in queste due discipline, così diverse, il nobile Alessandro Valenti di Trevi), ma anche nella musica, nella danza, nel canto e nell’equitazione (quest’ultima sotto la guida dell’aristocratico napoletano Giovan Battista Pignatelli, considerato il fondatore di questa disciplina).

 

Da buon mecenate aveva fatto affrescare le sale del suo castello braccianese dai migliori pittori dell’epoca ed aveva affidato il compito di scrivere l’ “Istoria di casa Orsina” al letterato Francesco Sansovino, fratello del più famoso architetto Jacopo.

 

Il 28 gennaio 1556 aveva impalmato Isabella e Cosimo I aveva voluto accanto a sé, a Firenze, i due sposi ai quali aveva donato villa Baroncelli (poi Poggio Imperiale), entrando, insomma, con tutti gli onori nella corte ducale fiorentina. Pare che l’Orsini, in questo periodo, si fosse indebitato enormemente per le spese sostenute, nei tornei, nella vita di corte, nella gestione del suo ducato, e per questo motivo avesse perduto, a Roma, il favore papale, nonostante il prestito di 30.000 fiorini per coprire il “buco”, gli fosse stato concesso non da un banchiere discusso ed esoso, ma dallo stesso suocero (Cosimo). Ma gli intrighi di corte si aggrappavano – i tempi, sotto questo aspetto, non sono cambiati – ad ogni scusa, vera o falsa, per impallinare ed abbattere un avversario politico e prenderne, magari, il posto.

 

Rimasto vedovo (l’amata Isabella, dopo ventidue anni di matrimonio, si era spenta nel 1578), incontrò nei circoli romani, intorno al 1580, Vittoria (a destra), pronubo forse uno dei fratelli di lei, Marcello. Lei bella ed intellettuale, lui un combattente ma di solida cultura. Cupido legò i due in maniera indissolubile e rovente. Per liberarsi del legame maritale di Vittoria, Paolo Giordano e Marcello arrivarono, tanto era l’ardore del duca innamorato, a far uccidere nel 1583 Francesco Peretti, nipote del cardinale (sembra che la poetessa fosse stata lasciata all’oscuro di questo piano sanguinoso).

 

L’omicidio fu messo in atto di notte. Con un tranello, al quale si prestò un beneficiato dalla stessa vittima designata, Peretti venne invitato ad uscire dal suo palazzo. I sicari lo trucidarono, nella zona di Monte Cavallo (Quirinale) a colpi di archibugio e coltellate. Grande sdegno e riprovazione suscitò il delitto. Ormai scevra da vincoli, Vittoria sposò due volte l’amato e per tutte e due le volte le nozze furono annullate dalla curia romana. La situazione per Paolo e Vittoria divenne insostenibile con l’elezione, del tutto inaspettata, del cardinale Peretti a pontefice (primo maggio del 1585), che covava un odio inestinguibile contro gli uccisori del nipote, nonostante fosse successore di Pietro e dovesse praticare la regola del perdono, perché proveniva dalle fila dei frati minori conventuali.

 

I due amanti, presumendo il peggio, fuggirono da Roma, si sposarono per la terza e definitiva volta, e trovarono rifugio – almeno, pensavano – nei territori della Serenissima a Salò. Tuttavia a metà novembre dello stesso anno Paolo Giordano andò incontro ad una morte misteriosa e terribile: avvelenato (per la longa manus del pontefice romano o per altri maneggi, magari opera di Francesco I dei Medici). L’affranta Vittoria ed il fratello Flaminio, per motivi di sicurezza personale, si trasferirono frettolosamente a Padova. La repubblica di Venezia – di cui Paolo Giordano era stato per un periodo, prima di Lepanto, comandante generale dell’esercito molto apprezzato – inviò in loro soccorso e protezione ed anche per risolvere delicate questioni economiche ed ereditarie, il luogotenente e cugino di Paolo Giordano, Ludovico Orsini della linea genealogica di Monterotondo. Quest’ultimo, che mirava al ducato di Bracciano, invece di prestare aiuto e consiglio, organizzò e fece eseguire, il massacro di Vittoria e del fratello di lei (22 dicembre 1585). L’uccisione in piena città fece scattare, contro la masnada assassina, l’intervento militare.

Dopo uno scontro, che si svolse in una delle piazze centrali, gli sbirri del Podestà e altre truppe reclutate tra i cittadini, con la promessa di una allettante taglia, ebbero ragione delle difese di Ludovico e di una trentina di suoi uomini, che si erano asserragliati in Palazzo Foscarini.

 

Il tutto dopo poco più di una quarantina di giorni dalla morte di Paolo Giordano. La reazione del governo di San Marco ad un crimine così sanguinoso si rivelò immediata e spietata: sei giorni più tardi, per ordine del Consiglio dei Dieci e senza processo, Ludovico pendeva da una forca. E, siccome “noblesse oblige”, per impiccarlo non venne utilizzata una corda di grezza canapa, come per i criminali comuni, ma – lo riportano gli storici – una di seta e di color cremisi…

 

L’esecuzione, in Castel Sant’Angelo, su ordine di Sisto V, di Marcello Accoramboni, autore o comunque mandante dell’attentato mortale del nipote del Santo Padre, chiuse il cerchio di una storia fosca, terribile, sanguinosa, orrenda.

 

Elio Clero Bertoldi

 

Nella foto di copertina, un panorama di Gubbio

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