PALERMO – 315 pagine, nove racconti: il più lungo, che dà il titolo al libro, di pagine ne ha 51, il più breve, l’intenso e inquietante Quello che si ricorda, solo 24; ogni storia avvince, appassiona ed emoziona i lettori. Nemico, amico, amante… (Einaudi, Torino, 2003, € 17,50, trad. di Susanna Basso) di Alice Munro, la scrittrice canadese che ha ricevuto nel 2013 il massimo riconoscimento per la Letteratura, è davvero un libro da Nobel. Le storie della Munro catturano per lo stile in apparenza semplice, ma efficace ed accurato; per l’apparente “nonchalance” con cui l’autrice attraversa con sapiente leggerezza i grandi temi della vita: le relazioni familiari, le storie d’amore, la malattia, la morte; per la modalità quasi distratta ed “obliqua” con cui mette a fuoco i sentimenti, le emozioni recondite, l’anima più vera dei personaggi.
Rimangono impressi per sempre Johanna, protagonista di Nemico, amico, amante, che “nemmeno da giovane si sarebbe concessa certe stravaganze, e non solo per una questione di soldi, ma per la presunzione che avrebbero significato, per la speranza immodesta di meritare una simile trasformazione, e la felicità.” e l’incontro disinvolto e delicato tra Jinny e il giovane Ricky ne Il ponte galleggiante. Indelebili anche la fuggitiva Queenie, nel racconto omonimo, la zia Alfrida in Mobili di famiglia e ancora, in Conforto, l’ateo prof. Lewis e il bacio di sua moglie Nina all’impresario delle pompe funebri. In Ortiche, la scrittrice ci offre poi con poche, essenziali pennellate il delicato sentimento di attrazione tra due bambini: “Nel sentimento per Mike il demone localizzato si trasformava in un’eccitazione diffusa e in una tenerezza sotto pelle, un piacere degli occhi e delle orecchie e una gioia cristallina in presenza dell’altro”. Il lettore attento avverte il tocco femminile nel racconto di queste storie.
E Alice Munro si rivela capace di tratteggiare con acuta sapienza espressiva alcune differenze di fondo tra l’animo degli uomini e quello delle donne, sfumature di diversità colte in una casa di riposo, nell’impegnativo confronto con la vecchiaia: “I parenti arrivavano a grappoli. Di solito capeggiati da madri allegre e insistenti che guidavano il gregge di uomini e figli. Gli unici a non mostrare apprensione erano i piccolissimi. (…) Certi insistevano con giochi nonostante i rimproveri, e dovevano essere riportati di peso alla macchina. E con quale gioia, con quanta sollecitudine, fratelli maggiori e padri si offrivano di occuparsi dell’allontanamento, approfittandone per mettere fine alla visita.” Tutti i racconti sono calati in un topos specifico: piccole cittadine vicino al lago Ontario, in Canada, paese dell’autrice; ma i tipi umani rappresentati, così bene analizzati nelle loro pulsioni interiori, non risultano affatto appesantiti dalla collocazione in uno spazio e in un tempo definiti. E poi la Munro possiede un’eccellente dote narrativa: quella di contrarre e dilatare a piacimento la dimensione temporale: in molti racconti la scrittrice si dimostra capace di farci viaggiare avanti e indietro nella vita dei personaggi con disinvolta maestria. Nella sua penna esperta, il tempo non è altro che la “distensio animae” di agostiniana memoria: “ciò che viene misurato dall’ anima non sono le cose nel loro trascorrere, ma l’ affezione che esse lasciano e che permane nella nostra anima anche quando esse sono trascorse.” (Sant’Agostino, “Confessioni”).
Nei nove racconti, la scrittrice alterna due registri narrativi: sei storie sono scritte in terza persona, le altre, Mobili di famiglia, Ortiche e Queenie, in prima persona. In queste tre storie, si avverte qualcosa di autobiografico: ad esempio, quando l’autrice accenna al doloroso vissuto di una separazione coniugale: “C’erano tristezze che riuscivo a sopportare, quelle legate agli uomini. Poi ce n’erano altre – legate ai figli – che non potevo reggere”. E infine, come non pensare che la chiusa di Mobili di famiglia sia proprio il manifesto della vocazione della Munro, col suo inevitabile bagaglio di brillante solitudine: “Che gioia, essere sola. Vedere la luce calda del tardo pomeriggio sul marciapiede, i rami di un albero, rinverditi da poco, proiettare le loro ombre scarne (…) Il lavoro a cui volevo dedicarmi era più simile a una mano che acciuffi qualcosa nell’aria che alla costruzione di storie. Le grida della folla mi arrivavano come un violento battito cardiaco, pieno di sofferenza. Solenni, splendide onde sonore, con il loro remoto consenso e il loro lamento quasi sovrumano. Era questo che volevo, questo su cui pensavo di dovermi concentrare; così volevo la vita”. Così, la scrittrice ci trascina nelle sue storie e ci prende per mano. E, come Jinny ne Il ponte galleggiante, proviamo“Una specie di leggerezza indulgente (…). Un fremito di affettuosa ilarità, che per il momento ha la meglio su tutto il dolore e il senso di vuoto”.
Maria D’Asaro
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