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Non aver elaborato il lutto? Una bomba inesplosa

di | 2020-05-01T18:25:06+02:00 3-5-2020 6:25|Cultura, Sezione 6|0 Commenti

ROMA – E’ un conto, quello con lei, che prima o poi bisogna saldare ed è probabilmente per questo che già l’uomo di Neanderthal, 40mila anni fa, primo nella storia dell’umanità, ha iniziato ad onorarla con cerimonie ed un vero e proprio culto. Si parla della morte, nel riconoscimento e nell’accettazione della quale la civiltà ebbe inizio ma il cui rituale ha subìto un improvviso azzeramento a causa delle disposizioni anti-contagio degli ultimi mesi. Niente più messe, né cerimonie, né la condivisione del dolore che avevano avuto per millenni la funzione di ricompattare la comunità dopo la perdita di un suo membro. No, ora si muore da soli.

Ci mise moltissimo tempo, l’uomo preistorico, a realizzare che non si poteva lasciare un individuo privo di vita così, senza onori, in pasto alle belve. Da allora, la pratica della sepoltura e dei riti riservati ai defunti non si è più interrotta, anzi, si è arricchita di cerimonie e testimonianze che ne hanno confermato l’importanza a livello sociale. Infatti, pur essendo riconosciuti come mondi separati quello dei vivi e quello dei morti, nel rito funebre è sempre stato visto il punto di passaggio, il confine che, in quanto tale, segna una barriera ma anche un congiungimento tra chi rimane e chi se n’è andato. Foscolo definiva il dialogo muto davanti alla tomba come una “corrispondenza d’amorosi sensi” tra noi e il caro estinto. Una corrispondenza che, sì, era frutto per il poeta di una illusione di eternità ma intorno alla quale – non si può negare – si sono sempre costruite la storia e l’identità di un paese, di una nazione. E’ quindi, quello dell’estremo commiato, un punto fermo che vale per tutte le religioni e tutte le epoche, che non ha avuto mai sospensioni, tramandando alle generazioni il lascito, il ricordo intorno al quale la comunità si riunisce e si fortifica, oltre a favorire quello che in psicologia si chiama “elaborazione del lutto”.

Le nuove regole (sebbene mitigate a partire da domani) imposte dall’emergenza sanitaria, però, che prevedono una tumulazione “asettica”, in solitudine e priva degli onori di familiari e amici, hanno imposto un cambiamento epocale, traumatico perché oltretutto improvviso – dal punto di vista storico e antropologico. “E’, questa – fa notare Marta Villa, docente di Antropologia culturale all’Università di Trento in un’intervista rilasciata al “Dolomiti” – al di là delle necessarie restrizioni, la cosa che ha colpito di più. Perché il cordoglio nei confronti dei morti è una caratteristica intrinseca del nostro essere umani. Da sempre – sottolinea – il funerale ha avuto a che fare con la gestione collettiva del dolore”. Lo sapeva bene Sofocle che, nella sua tragedia forse più famosa rappresentata ad Atene nel 442 a.C., racconta della dolce Antigone che va incontro alla morte pur di poter dare al fratello ucciso la degna sepoltura che gli è stata negata. E lo ricorda John Steinbeck in “Furore” nel 1939 quando Pa’ Joad, in fuga con la sua famiglia dalla fame e dalla povertà, dice ai coniugi Wilson che condividono la stessa misera sorte: “Siamo quasi parenti, adesso. Il nonno è morto nella vostra tenda”.

La cerimonia funebre, quindi, è un valore che tutta la letteratura, l’arte, la tradizione ma anche il folklore hanno sempre tramandato. E, tuttavia, le cose sono cambiate e questo è un problema che avrà forti ripercussioni nella società in cui ci ritroveremo appena potremo uscire di casa. “In questi giorni si parla molto delle conseguenze economiche del virus, ma non abbastanza di quelle che riguardano le persone che non hanno la possibilità di celebrare i funerali dei propri cari – ha dichiarato all’Ansa Marco Simone, psicologo e psicoterapeuta familiare – perché la mancata elaborazione del lutto può minare l’equilibrio di una persona ed è un po’ come una bomba inesplosa”. Questa situazione si assomma al fatto che negli ultimi decenni l’idea della morte è stata travisata. Molti l’hanno rimossa perché troppo dolorosa o l’hanno sotterrata con i lustrini del consumismo e con il frastuono di una vita troppo veloce, altri si sono fatti un’idea della morte irreale, così come è presentata dai media o sui videogiochi. La storia di questi giorni, però, ci ha fatto vedere in faccia il suo volto reale, cinico, come in effetti è, e ci ha trovato impreparati ad accettare la precarietà della condizione umana. E’ un argomento da cui non si può più fuggire e che impone, ora più che mai, una riflessione critica verso la quale guidare prima di tutto i giovani perché questa sarà l’emergenza sociale dei prossimi mesi.

Gloria Zarletti

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