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Lo straniero di Camus, il nostro modello “Zen”

di | 2020-11-14T18:28:24+01:00 15-11-2020 6:30|Cultura, Sezione 7|0 Commenti

ROMA – Quando, nel 1957, lo scrittore Albert Camus vinse il Nobel per aver messo in luce nella sua opera i problemi esistenziali e la consapevolezza dell’uomo moderno, probabilmente non immaginava di aver creato un personaggio letterario che sarebbe stato un modello di comportamento ideale per i nostri tempi, quasi un secolo dopo. Oggi lo stress, l’ansia, l’insonnia e le emozioni distruttive sono limitanti per la qualità della vita, tanto che molti ricorrono, se non alla psicoterapia, almeno a pratiche alternative che guidino verso uno stile di vita più leggero, al pensiero zero o, almeno, alla consapevolezza di se stessi: la cosiddetta mindfullness. In “L’etranger” (trad. Lo straniero, pubblicato nel 1942), il protagonista Mersault cui Camus, inaugurando l’esistenzialismo, ha dato vita, appare un imbelle, passivo e indifferente alla vita, un po’ parente sia dell’italiano Zeno Cosini di Italo Svevo che di Augusto Perez dello spagnolo Miguel de Unamuno. Ma Mersault, con la sua frase più volte ripetuta nel romanzo: “ça m’étaitégal – per me era lo stesso”, è molto di più dei suoi compagni indecisi.

Sì, perché lui è quello che, per il suo porsi – appunto – lucidamente come uno straniero al mondo e alla sua stessa vita, nelle sue poche e dosate parole, nella sua incapacità di reagire, ecco, è quello che definiremmo un modello “zen”. Mersault, infatti, è indifferente a tutto: non sceglie se accettare o no una promozione sul lavoro, se sposare o no la ragazza che frequenta, addirittura non sa dire se ne è innamorato o no. Dopo aver ucciso per caso un uomo, rinuncia a difendersi durante il processo trovando meno faticoso aspettare che gli eventi si verifichino automaticamente piuttosto che affannarsi per trovare una soluzione. E in questa sua atonia, più che sembrare un apatico, alla fine del romanzo il lettore non può che trovare un fascino irresistibile perché, nella sua dignitosa fermezza, nella sua discrezione, nel suo linguaggio contenuto e scarno, egli si erge sopra la folla pur senza voler emergere. Mersault si distingue.

Oggi, nell’epoca dell’ansia da prestazione, dell’arrembaggio per mettersi in mostra e della fretta per vivere una vita spericolata, con la sua misura e il suo controllo, egli ci appare con il carisma di un monaco orientale e ci piacerebbe somigliargli un po’. Mersault è “zen” per la sua capacità di “stare” nel presente, nel qui e ora, distaccandosi dal dolore per il passato e dall’ansia per il futuro. Quella sua, infatti, è una forma mentale, un atteggiamento che oggi frequentiamo corsi impegnativi e lunghi per acquisire. Lui, invece, è proprio così: imperturbabile. E la meditazione, che è un difficile esercizio per azzerare il pensiero e raggiungere la consapevolezza del nostro vero sé, ce l’ha nel Dna. Certo, Camus mentre scriveva il suo capolavoro non avrebbe mai immaginato che il suo laconico protagonista sarebbe diventato un eroe di mindfullness, la pratica oggi tanto in voga per raggiungere la pienezza di se stessi e della realtà riuscendo così a controllare gli uni, l’altra e anche tutto ciò che potrebbe far soffrire: emozioni, sensazioni e pensieri negativi.

In questo Mersault è un vero campione di equilibrio. La meditazione ce l’ha nel sangue, gli viene spontanea. Nella sua cella, in isolamento, mentre attende la sentenza, riesce ad immaginare il cielo e il mare, i rumori della vita e della natura che scorrono e ne gioisce perché se ne sente parte. Ripesca nella sua memoria, e lo scruta, ogni singolo oggetto della sua camera che non vedrà più, e vi cerca nuovi significati, trovandoli e collegandoli con tutta la vita che scorre nell’universo, gode di questa connessione. E che cosa è questa se non mindfullness? Altro che imbelle, indeciso, passivo, pessimista. In realtà il personaggio di Camus è uno che ha trovato l’antidoto alla drammaticità della vita che, con i suoi eventi, può far esplodere il destino di un uomo in un secondo, distruggendolo. A Mersault questo non accade: niente lo tocca. Egli non reagisce mai facendo sì, passivamente, che nulla cambi o, nell’eventualità che ciò accada, che tutto torni a posto affinchè possa riprendersi la sua indifferenza, unico rimedio alla banalità della vita. E’ questo suo esercizio continuo al distacco che caratterizza il personaggio di Camus richiamato nel titolo. Mersault, infatti, è straniero (estraneo?), non solo al mondo ma anche a se stesso. Più che vivere la sua vita, lascia che sia essa stessa a farlo per lui. Passando dalla filosofia orientale allo stoicismo di Seneca, Mersault osserva la regola di non opporsi al destino che, in tal caso, lo trascinerebbe “come un cane”. Per questo si abbandona al flusso continuo del divenire limitandosi alle azioni necessarie per sentirsene parte.

Niente gesti clamorosi, nessuna scelta. Mersault mantiene un tono basso, non dà nell’occhio, fa il suo dovere e tanto basta per andare avanti senza contraccolpi. Alla fine è per questa sua impuntatura a stare sempre nella normalità che viene punito: perché non fa gesti clamorosi, né si concede alla stampa, non chiede perdono, non prega, non cerca attenuanti come avrebbero fatto tutti. Ma non tutti sono eroi del vivere quotidiano, che è la vera sfida, dal ‘900 ad oggi. Infastidisce Mersault ciò che lo distoglie da se stesso, che lo deconcentra dal suo unico desiderio: quello di sentirsi, di percepire momento dopo momento la propria presenza. Così realizza in pieno la sua vocazione di uomo: vive al di là dei ruoli che gli affibbiano, di ciò che si dice di lui. Vuole rimanere anonimo e questo atteggiamento è una risposta etica molto netta al narcisismo dei nostri tempi, in cui la tendenza è a far di tutto per mostrarci agli altri e per essere come gli altri, come se questo ci rassicurasse del fatto che esistiamo. “Lo straniero” esiste a prescindere da quanto gli accade intorno e per questo rappresenta un modello di comportamento non da imitare ma, sicuramente, su cui riflettere.

Gloria Zarletti

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