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Le infinite declinazioni dell’amore

di | 2023-11-15T18:18:12+01:00 19-11-2023 5:00|Cultura, Sezione 1|0 Commenti

TARANTO – Gabriele Falloppio (1523-1562), medico modenese, docente di anatomia presso le Università di Pisa e di Padova, è stato il primo a descrivere dettagliatamente l’apparato riproduttore femminile, determinando con ciò una vera e propria rivoluzione culturale. Sino ad allora, per secoli, si era ritenuto che fosse l’uomo a deporre nell’utero materno un microscopico “ometto”: la donna funzionava solo da incubatrice. Falloppio dimostrò che l’utero non era una “culla”, ma era collegato alle ovaie da una coppia di condotti simmetrici che chiamò uteri tubae (trombe uterine), chiarendo che esse erano molto simili allo strumento musicale classico e specificando di aver osservato tali annessi non solo nelle donne, ma anche nelle pecore, nelle mucche e in tutte le specie animali da lui sezionate. Oggi, tali “trombe” vengono universalmente indicate come Tube di Falloppio.

Gabriele Falloppio, illustre medico

Come ricorda il suo contemporaneo Lodovico Castelvetro, Falloppio non era solo un bravo medico (niuno si trovava amalato di qualsivoglia infermità, che non volesse esser medicato da lui), ma anche un brav’uomo (visitava i malati, li confortava et se avevano bisogno si dava ad accattare per loro). Quando, per insegnare nella locale università, giunse a Padova il botanico tedesco Melchior Wieland (meglio noto come Melchiorre Guilandino), suo coetaneo, Falloppio non esitò a concedergli ospitalità; e, quando l’amico venne rapito dai pirati durante un viaggio di studio in Medioriente, riuscì, benché già avvertisse i segni della malattia che lo avrebbe poi condotto a morte, a raccogliere la somma di 200 scudi d’oro richiesta per il riscatto, che si premurò di consegnare personalmente in Grecia.

Ben presto il rapporto d’amicizia tra i due era trasformato in una intima relazione, basata sull’affetto, sulla lealtà assoluta e sulla condivisione di tutto, destando diffusa invidia e crudeli maldicenze. In una lettera del 1558 indirizzata ad un amico entomologo, il medico senese Pier Andrea Mattioli, sincero estimatore dell’opera di Falloppio, così si espresse: «Imperò che [Gabriello] ama forse più i vitii del suo Guilandino, et la galanteria di così gentile hermafrodito, che la verità et le virtù mie» e, in un’altra lettera, questa volta indirizzata allo stesso Falloppio, arrivò agli insulti e alle minacce: «Non pensate però che io molto me curi delle villanie di questa puzzolente et stomachosa bestia; perché né egli, né la puttana di sua madre, né il cornuto di suo padre, con tutta la sporchissima progenie loro, saranno mai bastanti a inscurire una minima particella del buon nome et della chiarezza del Matthioli […] perché a simil bestie non si risponde se non con il suono di buone bastonate fino che le cervella insieme con l’intelletto caschino loro in bocca».

Melchiorre Guilandino, botanico tedesco

Alla giovane età di 39 anni Falloppio morì (di tubercolosi, probabilmente) e il suo compagno fece incidere sulla lapide della tomba, eretta nei pressi della porta settentrionale della chiesa di Sant’Antonio di Padova, la commovente epigrafe: Fallopi, hic tumuli solus non conderis urna: est pariter tecum nostra sepulta domus (Falloppio, in questa tomba non verrai sepolto da solo: con te viene sepolta anche la nostra casa). Nel Settecento la tomba di Falloppio venne demolita per aprire una porta sul chiostro e le sue ossa collocate, da un “ignoto pietoso”, nella tomba di Guilandino. Sulla lapide che è stata sistemata all’inizio del Novecento, quale ex voto postumo di un amore che sfidava i secoli, si legge: Hic sepulta fuerunt ossa Gabrielis Falloppii † 1562 et Melchioris Guilandini † 1589 Hortus Patavinus tantorum virorum memor et gratus p. 1902 (Qui sono state sepolte le ossa di Gabriele Falloppio, morto nel 1562, e di Melchiorre Guilandino, morto nel 1589. L’orto padovano, memore e grato al cospetto di uomini così illustri).

La storia d’amore di Gabriele e Melchiorre ricorda quella, quasi contemporanea, tra Pico della Mirandola e Girolamo Benivieni. Per volontà di quest’ultimo, anche i loro resti vennero custoditi, nella chiesa di San Marco a Firenze, in una sepoltura comune e Benivieni, morto ben cinquant’anni dopo il compagno, ne spiegò la ragione dettando la seguente epigrafe: ne disiunctus post mortem locus ossa separet quod animos in vita coniunxit amor (affinché, dopo la morte, luoghi distinti non separino le ossa di coloro i cui animi, in vita, l’amore ha unito).

Epigrafe della sepoltura comune di Pico della
Mirandola e Girolamo Benivieni

Tra il XIV ed il XVI secolo l’omosessualità era piuttosto diffusa, soprattutto, così pare, a Firenze ed a Venezia, ed era considerata un reato, ma non per motivazioni etiche, che pure venivano ipocritamente sbandierate: per costringere al matrimonio i rampolli maschi delle famiglie più agiate, tant’è che dell’omosessualità femminile non si è mai preoccupato nessuno. Ragioni politiche ed economiche, dunque, non morali, il tutto condito con tanto falso perbenismo. Nel 1432 il governo fiorentino deliberò di istituire una speciale “Cancelleria notturna” per indagare sui casi di sodomia e nei settant’anni di frenetica attività vennero condannati circa 17.000 uomini, con pene che andavano da pochi giorni di detenzione per gli adolescenti “passivi” al rogo per gli “attivi” recidivi. Il 13 agosto del 1512, tuttavia, trenta giovani aristocratici fiorentini, noti come i Compagnacci, fecero irruzione in Palazzo Vecchio per chiedere al Maggior Consiglio l’abrogazione delle norme per i reati di sodomia: tale richiesta venne accolta poche settimane dopo, con il ritorno dei Medici, e tali leggi vennero definitivamente abolite.

Girolamo Savonarola

Durante il Rinascimento l’omosessualità “praticata” era bandita perché sottendeva il desiderio di “godersi la vita”, invece di metter su famiglia e procreare: il terribile fustigatore dei costumi Girolamo Savonarola, durante l’orazione funebre per la morte di Pico della Mirandola, raccomandò ai presenti di pregare per l’anima del defunto, che, a causa di “certi peccati” (non specificò quali…), aveva dovuto fare una piccola sosta in Purgatorio. Quel medesimo Savonarola che appena un anno dopo chiederà «che si facessi uno bel fuoco, dua o tre, là in piazza, di questi soddomiti […]; fate, dico, uno sacrificio a Dio, che gli sarà in odore di suavità». Non si contestava l’omosessualità in sé, soprattutto se “casta”, ma il perverso e diffuso malcostume di abdicare ai propri doveri sociali, anche perché gli affetti, i sentimenti e le abitudini sessuali, che venivano relegati nella sfera del privato, nulla avevano a che fare con il matrimonio in quanto istituzione, civica e religiosa. L’amore, come quello tra Falloppio e Guilandino o tra Pico e Benivieni, era ed è un’altra cosa: omnia vincit amor, et nos cedamus amori (L’amore vince ogni cosa, arrendiamoci anche noi all’amore), suggeriva Virgilio.

Riccardo Della Ricca

Nell’immagine di copertina, lo “Scalone monumentale” dell’Istituto di Anatomia umana di Padova: murale di Milo Manara raffigurante i più illustri docenti di anatomia dell’Università

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