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Il sottile filo di intimità che lega poeta e lettore

di | 2023-02-18T11:14:59+01:00 19-2-2023 6:20|Cultura, Sezione 5|0 Commenti

ROMA – Chi sia il poeta e che cosa sia la poesia si tenta di definirlo dalla notte dei tempi, da quando cioè quell’uomo particolare con la penna in mano ha cominciato ad essere consapevole di essere il “vas” – da cui il termine “Vate” – il contenitore destinato ad accogliere l’ispirazione divina che sola può condurre alla creazione artistica. Da quando la poesia si considera nata, cioè un paio di millenni fa, Omero è il poeta dei poeti, una figura probabilmente più leggendaria e simbolica che storica ma che ben riunisce in sé il valore fondamentale di questa scrittura misteriosa, affascinante, elitaria e talvolta criptica. La poesia, infatti, è parola come risultato di una scelta minuziosa e accurata riguardo il suo significato, le sue implicazioni, il suo suono e la sua posizione in un verso.

Omero

Un lavoro certosino, quello dello scrittore a caccia da sempre della veste giusta da dare al suo mondo interiore, per rappresentare il quale sceglie di volta in volta degli attrezzi precisi dalla sua cassetta di lavoro: figure retoriche, sinonimi e contrari, assonanze, rime. Non a caso Omero è anche cieco, simbolicamente, perché ciò che scrive non è la rappresentazione di ciò che vede ma di ciò che sente con il cuore. Si spiega bene, così, la visione dell’Infinito da parte di un Giacomo Leopardi mai uscito dalla sua gabbia dorata in Recanati ma si intuisce la portata anche di associazioni assurde – gli ossimori e le sinestesie – nella natura immaginaria dei Fiori del Male di Baudelaire. Si era nell’800 e la poesia aveva già percorso tanta strada.

Giacomo Leopardi

Già nel terzo secolo a.C., però, Plauto, nel suo “Pseudolus”, fa dichiarare all’omonimo protagonista, il servo astuto, che lui è come il poeta (dal greco poieo: creo), e quindi inventa, immagina, fantastica. Non a caso il suo nome, Pseudolus, significa “bugiardo” ed esso nella nostra lingua si porta dietro una sfilza di derivati la cui area semantica è quella della menzogna. Insomma, la poesia è una bugìa, sì, ma soprattutto una creazione di bellezza in un mondo che non è quello reale ma una pura finzione. E’ un’arte raffinata che ha seguito correnti, tendenze, filosofie e che non tutti possono praticare perché poeti non si diventa ma si nasce. E la poesia non parla a tutti ma ad un pubblico scelto, capace di “fare finta che” il mondo del poeta sia reale, perché ne sa decodificare i giochi di parole, gli artifici, ed è capace, insomma, di mettersi nei suoi panni.

Plauto

Poeta e lettore diventano, quindi, intimi nel momento in cui il secondo entra in sintonia con il primo e legge quei versi come se li avesse scritti lui stesso. Ma chi è capace di sortire un effetto di tale portata? Di certo, non tutti quelli che si autodefiniscono poeti e che scrivono in versi. Come si possa iniziare a dedicarsi a questa arte lo scrive Rainer Maria Rilke in “Dieci righe”. “Con i versi si fa ben poco quando li si vuole scrivere in fretta”, esordisce il piccolo, delizioso componimento contenuto nei “Quaderni di Malte” dove lo scrittore spiega il lungo percorso per iniziare a scrivere.

Rainer Maria Rilke

Egli elenca tutte le necessarie fasi preparatorie, che sono un po’ quelle che fanno parte della esperienza di tutti: raccogliere senso e dolcezza, vedere uomini e città, conoscere cose, regioni sconosciute, sentire uccelli volare, fare incontri inaspettati, ripensare a giorni d’infanzia ancora inesplicati, ai genitori di cui non abbiamo compreso le gioie che ci stavano porgendo, a mattine sul mare, alle notti di viaggio.

Inoltre, in queste dieci righe, Rilke aggiunge ai requisiti per fare poesia la necessità di aver vissuto molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di essere stati presso i moribondi e vicino ai morti prima che diventassero dei ricordi. Solo dopo aver superato queste fasi – che però probabilmente simboleggiano una conoscenza innata del poeta – si può iniziare a scrivere il primo verso. A patto, si potrebbe aggiungere, di saperlo fare “ad arte” perché è questa la differenza tra un poeta e chi – per dirla con Rilke – scrive frettolosamente versi.

Gloria Zarletti

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