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Hermann Hesse e il gioco delle perle

di | 2023-05-28T06:23:46+02:00 28-5-2023 5:30|Cultura, Sezione 7|0 Commenti

MILANO – “Il giuoco delle perle di vetro è un modo di giocare con tutti i valori e con il contenuto della nostra civiltà. Come un pittore può aver giocato con i colori della sua tavolozza”. Così Hermann Hesse, Premio Nobel per la letteratura nel 1946, si spinge oltre ogni convenzione culturale e letteraria, esplorando, nelle sue opere, i territori della ricerca spirituale individuale. Tra le sue opere più importanti Demian (1919), Siddhartha (1922) e Der Steppenwolf (1927). Pubblica, nel 1943, “Il giuoco delle perle di vetro”, romanzo filosofico fantastico che lo scrittore tedesco iniziò a scrivere nel 1931, con l’intento di realizzare il proprio capolavoro, che vide le stampe in Svizzera dodici anni dopo.

Il romanzo, chiamato anche Magister Ludi (maestro di gioco), dal nome di uno dei personaggi, racconta di una vicenda fantastica che fa da sfondo alla visione utopistica di una comunità spirituale che unisce pratica ascetica e vita attiva. Hesse riprende dunque un tema che gli è caro fin dai tempi di Siddharta: la necessità per l’uomo moderno di scendere dalle regioni dello spirito assoluto per immergersi nel flusso della vita. Le regole del gioco non vengono mai spiegate, ma si intuisce che siano estremamente sofisticate. In qualche modo, il gioco si basa su una sintesi di tutto lo scibile umano; le mosse dei giocatori consistono nello stabilire relazioni fra soggetti apparentemente lontanissimi fra loro (per esempio, un concerto di Bach e una formula matematica).

Il nome del gioco deriva dal fatto che, secondo il romanzo, esso veniva un tempo giocato usando “pezzi” (appunto perle di vetro) per rappresentare combinazioni astratte, in sostituzione di lettere, numeri, note musicali (soprattutto) o altri segni grafici. In questo lunghissimo e complesso romanzo di Hesse, tornano diversi temi cari all’autore, a partire dalla contrapposizione tra Spirito e Vita, tra teoria e pratica, tra riflessione ed emozione, che già troviamo in Siddharta e in Narciso e Boccadoro. Lo scritto offre sempre innumerevoli spunti di riflessione e porta alla luce la forte avversione che l’autore aveva per la guerra; in alcune sue parole si può leggere un’aperta critica al regime nazista. Ma è soprattutto un’importante opera sulla bellezza e la delicatezza dell’animo, nelle sue varie forme e nelle produzioni che questo è in grado di creare. Ogni pagina del libro è impreziosita da profonde considerazioni su diversi argomenti, dalla storia alla politica, dalla filosofia alla psicologia, passando per l’estetica.

Hesse scava e in ogni parola si ritrova una ricerca sapiente e calcolata, e le parole stesse, nel loro insieme, sono il mezzo che l’autore usa per sondare le mille sfaccettature dell’animo e della vita, e che il romanzo ci illude di poter maneggiare con chiarezza, per poi (una volta concluso) farci tornare alla realtà caotica e disordinata, ma energica ed emozionante che è l’esistenza. Hesse riprende dunque un tema che gli è caro fin dai tempi di Siddharta: la necessità per l’uomo moderno di scendere dalle regioni dello spirito assoluto per immergersi nel flusso della vita.

Claudia Gaetani

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