//“Ma per trattar del ben ch’i vi trovai”

“Ma per trattar del ben ch’i vi trovai”

di | 2021-03-27T22:33:51+01:00 27-3-2021 22:26|Alboscuole|0 Commenti
Di Minerva Freda – 4B –
Il titolo di apertura del Convegno dei Colloqui Fiorentini, dedicati quest’anno a Dante Alighieri, è un verso tratto dal I Canto dell’Inferno, prima opera racchiusa all’interno di quello che può definirsi il capolavoro, per eccellenza, dell’autore: la Commedia.
Per chi non ne fosse a conoscenza, i Colloqui Fiorentini sono una manifestazione a carattere nazionale, positivamente affermata nel panorama scolastico e culturale italiano, proposta dall’associazione Diesse Firenze e Toscana.
Da grande appassionata di letteratura quale sono, appena la mia professoressa di Italiano ci ha proposto di partecipare a questo Convegno, entusiasta, ho subito aderito.
Nonostante il periodo di pandemia che stiamo vivendo, che, come ben sappiamo, ha reso impossibile ogni sorta di attività in presenza, il direttore Pietro Baroni e altri insegnanti non si sono persi d’animo e hanno dato luogo ad una delle più belle edizioni dei Colloqui Fiorentini.
In occasione dei 700 anni dalla morte di Dante, nelle giornate del 18-19 e 20 marzo, siamo stati coinvolti in una serie di eventi online in diretta streaming, con lezioni, che hanno visto avvicendarsi esperti, scrittori, poeti, letterati e giornalisti tra i quali Pietro Baroni, Gilberto Baroni, Diego Picano, Alessandro D’Avenia, Davide Rondoni.
Iniziamo per gradi.
Il primo ad intervenire è stato il prof Diego Picano, docente di Lettere nella scuola secondaria di II grado, il quale, in modo molto esaustivo e coinvolgente, ci ha spiegato cosa Dante trovasse di bene nel male per eccellenza: l’Inferno.
Egli ci ha messo di fronte ad un quesito: “Perché Dante è così convinto di aver trovato il bene, se si trova all’interno di ciò che richiama il dolore, la sofferenza, il peccato? Il peccato cos’è?”.
Il peccato, ci dice, non è altro che uno spreco della bellezza. Questa bellezza è diversa da persona a persona. Per me può essere bella una giornata di sole, il profumo di una rosa, il sapore del mio piatto preferito e così via.
La bellezza è qualcosa che suscita in noi un desiderio.
Dante prova un desiderio, quando nei versi della Vita Nova: “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta” ci fa comprendere come egli sia sereno, tranquillo e beato nel vedere Beatrice. Le guarda i capelli, gli occhi, il viso e vorrebbe non smetter mai di rimirarla.
Ma le cose belle finiscono e Beatrice viene strappata al mondo dalla morte. Così Dante, in preda a sentimenti negativi, intraprende questo viaggio durante la notte tra il 7 e l’8 Aprile del 1300, riuscendo, poi, a ricongiungersi a lei dinanzi alle porte del Paradiso.
Il secondo intervento, invece, è stato quello di Alessandro D’Avenia, scrittore, insegnante e sceneggiatore il quale, fin da piccolo, è stato un grande appassionato della letteratura.
Inizia col dire che i due libri più odiati dagli studenti sono i Promessi Sposi e, ironia della sorte, la Divina Commedia.
Al secondo anno, infatti, viene inflitta agli studenti questa “tortura” di dover studiare il capolavoro manzoniano, mentre al triennio Dante e la sua Commedia accompagnano i pomeriggi di studio matto e disperatissimo. Poi la bellezza di queste opere ci conquisterà senza abbandonarci mai più, perché ciascuno di noi sperimenterà nella propria vita le emozioni che gli autori ci offrono.
Il canto che D’Avenia tratta, in modo particolare, è il V Canto dell’Inferno, sotto la guida del fedele libro dell’Inferno commentato da Franco Nembrini, dove entrano in scena due figure sì misteriose, ma molto affascinanti.
“Amor ch’a nullo amato amar perdona…”
Verso che, ognuno di noi ha sentito almeno una volta nella propria vita.
A pronunciarla è Francesca da Rimini, coniugata Malatesta.
Ella era figlia di Guido il Vecchio da Polenta, signore di Ravenna, che dopo il 1275 era stata costretta a sposare Gianciotto Malatesta, che, insomma, non era proprio un divo di Hollywood. Paolo, invece, altro grande protagonista di questo canto, è il fratello di Gianciotto e, a quanto narra Dante, ebbe una relazione adulterina con la cognata Francesca, che li portò alla morte.
“Amor condusse noi ad una morte.”
Francesca era una donna colta, esperta di letteratura amorosa e ci dice che il loro peccato fu quello di leggere la travagliata storia di Lancillotto e Ginevra e che lei e Paolo, come loro, intrapresero una relazione clandestina.
Dante, spiega D’Avenia, si sente coinvolto nella vicenda, dal momento che il padre di Francesca è stato uno dei Signori che lo accolse alla propria corte, riconoscendone il valore e la grandezza poetica.
Il poeta vuole esaltare questo sentimento d’amore gentile, poiché non è peccato amare una persona, finché questo amore resti una cosa astratta e resti sentimento.
Il peccato, invece, quello che portò alla morte i due amanti, consiste nell’aver dato seguito a questo amore e essersi comportati di conseguenza.
Il terzo intervento, personalmente quello che più mi ha colpito, è stato quello di Davide Rondoni, poeta, scrittore e drammaturgo.
Egli ha iniziato presentandoci il personaggio del poliedrico Ulisse.
Ulisse è fiamma che brucia tra i consiglieri di frode, insieme a Diomede.
Ma perché Dante condanna uno che vuole conoscere?
L’Ulisse del poeta fiorentino è diverso rispetto a quello di Omero nel poema l’Odissea.
Dante si basa su una pagina de Le Confessiones di S. Agostino, dove dice che noi uomini cerchiamo con il desiderio di trovare e troviamo con il desiderio di trovare ancora.
Sia Dante che Agostino vogliono considerare l’uomo che va alla ricerca del bene, della felicità, che vuole il meglio per la propria vita, ma si sente confuso. È impedito dalla presenza del male dentro e fuori di lui.
Confonde il desiderio di conoscere con la brama del potere.
Da questo nasce l’attenzione particolare di Dante nei confronti di Ulisse. Dobbiamo ricordarci che egli non conosceva affatto l’Odissea, essendo essa scritta in greco, ma si basa su ciò che è scritto da Cicerone nel De Finibus.
Questo Ulisse dantesco è un uomo che non ha mai spento il suo ardore conoscitivo, che brucia dentro di lui. È talmente forte che va oltre l’amata patria Itaca, la moglie Penelope, il figlio Telemaco, il padre Laerte e il cane Argo. È un ardore che niente e nessuno è capace di frenare.
Egli non parlerà mai dei suoi peccati legati alla frode, bensì tratterà del suo inconsapevole errore di aver oltrepassato le colonne d’Ercole, il limite del mondo, allora, conosciuto.
E ci racconta dell’indovino Tiresia, il quale nell’Ade profetizza ad Ulisse una navigazione lunga, turbata dall’ira di Poseidone per aver accecato il figlio Polifemo.
Tiresia non gli parlerà mai del destino come una via da seguire, ma ammette un cambiamento in esso da parte dell’operato dell’uomo. Infatti, anche se i compagni di Ulisse non avessero mangiato i buoi sacri ad Apollo e non fossero morti, era già stata decisa la vendetta sui Proci, per esempio.
Ma è inoltre deciso che Odisseo non tornerà mai più a casa e compirà il suo ultimo viaggio in mare, dove sopraggiungerà la morte.
Quindi, è come se Dante si paragonasse ad Ulisse ma, diversamente da quest’ultimo, il suo viaggio non finirà con la morte, bensì sarà un cammino verso il bene.
Dante, con i suoi versi, ci rende tutto il fascino della letteratura e ci mostra un cammino che ha come meta la scoperta della nostra vocazione di esseri umani.
I Colloqui fiorentini, come ci dice il prof. Gilberto Baroni, non hanno intenzione di accrescere il nostro numero di nozioni che possediamo, tantomeno su Dante,
bensì ci aiutano a custodire il nostro sapere, il nostro ardore conoscitivo, al fine di diventare dei piccoli Ulisse che non si stancheranno mai di apprendere sempre di più.
Riusciremo anche noi ad intraprendere un viaggio che, ci porterà, finalmente …a riveder le nostre stelle!