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“Storia di un uomo magro”, il dramma di un sardo nei lager

di | 2024-03-01T18:31:06+01:00 3-3-2024 5:45|Sezione10, Spettacolo|0 Commenti

NUORO – “Storia di un uomo magro” è una storia forte, toccante, come solo le storie drammatiche di chi ha vissuto il dolore e il dramma della guerra sanno ricordare. La “memoria” assume un valore fondamentale per i popoli ed in particolare per i giovani che non hanno vissuto direttamente quella tragedia ma non ne possono scordare gli eventi e il calvario subito da molti. Si tratta di un monologo recitato da Paolo Floris, che ne ha curato la regia, che con 13 rappresentazioni in diverse regioni italiane (Lombardia, Emilia, Liguria, Marche, Veneto, Sardegna), in occasione della giornata della memoria, ha portato in scena uno dei periodi più tristi e strazianti della nostra storia.

Paolo Floris

La vicenda racconta le dolorose vicissitudini di Vittorio Palmas, contadino – soldato, reduce della seconda guerra mondiale, deportato nel campo di concentramento di Bergen-Belsen come traditore, che si salva dai forni crematori perché magro, ma non troppo. Vittorio Palmas, classe 1913, originario del paese ogliastrino di Perdasdefogu, noto a tutti come Catzai, non c’è più. Si è spento nel 2019 all’età di 105 anni, ma la sua storia per anni conservata nel profondo del suo cuore ha trovato voce grazie al giornalista Giacomo Mameli nel libro “Il forno e la sirena” da cui è stato tratto liberamente il monologo di Floris.

Vittorio Palmas

Il protagonista è un uomo come tanti, un bravo giovane, un lavoratore che vive nell’entroterra ogliastrino, in un piccolo e povero paese, in un’umile casetta senza luce e i comfort a cui oggi nella vita quotidiana siamo abituati. Non è mai stato robusto e forte, è esile, magro ma non troppo, e per questo viene ritenuto abile alle armi e arruolato, nel cinquantacinquesimo reggimento, per partire in guerra dal 1940 al 1943. La sua destinazione è la Jugoslavia e parte, armato di fucile, per una guerra che gli viene descritta come semplice e breve, ma purtroppo si trasforma in un calvario, anticamera di una morte quasi annunciata. Vittorio, abituato alle miti temperature della sua isola, deve sopportare il freddo pungente, la neve, il gelo. Mal equipaggiato com’è, avendo ai piedi semplici scarpe di cartone, combatte con i geloni che gli rendono sempre più complicate le marce forzate e i combattimenti.

La speranza di sopravvivere però è tanta e sopporta tutto in religioso silenzio, rivolgendo i suoi pensieri alla terra e alla donna amata. La guerra viene persa, ma dopo l’armistizio dell’8 settembre pensieri positivi balenano nelle menti dei soldati che aspirano a far ritorno a casa. Accusato di tradimento viene deportato in Germania e rinchiuso nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Qui vive l’esperienza più forte e drammatica che lo segnerà per tutta la vita ma che, fortunatamente, potrà raccontare grazie al suo peso. I detenuti del campo sono infatti sottoposti a una pesatura rituale che può decidere la vita e la morte dei carcerati. Quanti pesano 35 chili o meno vengono subito inviati ai forni crematori, Vittorio, che ne pesa 37, si salva.

Paolo Floris

Così, quel Dio che ogni giorno si travestiva da bilancia decidendo chi dovesse vivere e chi morire, con lui è magnanimo e lo risparmia. Il monologo, scritto con un linguaggio leggero che ricorda quello delle fiabe, permette di trasformare le vittime dei lager e della guerra, spesso dimenticati, in eroi. Sul palco la vicenda ha inizio col suono di una fisarmonica che intona il brano “Bella ciao” eseguito magistralmente dall’organettista Pierpaolo Vacca. In seguito, nel buio che avvolge la sala, s’ode il suono di un fischietto, le luci si accendono e sul palco prende vita “Storia di un uomo magro“. Il pubblico segue il monologo con attenzione e un groppo in gola fino al finale, dolce-amaro, perché l’orrore vissuto dal protagonista e raccontato da Floris purtroppo rimane, perché la memoria rimane, rivive, insegna, segna cuori e menti solo se raccontata.

Il regista-attore, alla fine degli spettacoli per le scuole, dialogando con gli studenti, inserisce, attraverso le parole del personaggio narrante, una critica verso chi non crede all’esistenza dei campi di concentramento. “Ma non sai che esistono ancora? Sono diversi, ma ci sono: in Cina, in Libia, l’anno prossimo forse in Albania e quest’anno hanno aperto il campo più grande al mondo, si chiama Gaza e ci tirano anche le bombe”.

Giacomo Mameli

Opere come questa, gli incontri con i testimoni della Shoah, lo studio della storia sono essenziali veicoli di conoscenza, mezzi utilissimi per rafforzare la memoria collettiva dell’intera Umanità, per la formazione e la crescita della coscienza dei giovani perché atti così efferati non debbano ripetersi nuovamente. Sono proprio i giovani il futuro e la svolta, se diventano portatori di conoscenza e valori di tolleranza. Primo Levi diceva che “è necessario che la memoria dell’olocausto non muoia, ma passi di generazione in generazione: nessuno deve dimenticare le atrocità del sistema nazista e tutti devono riflettere sul pericolo, sempre ricorrente, che i principi del razzismo tornino ad avere il sopravvento e producano di nuovo le barbarie dei lager”.

Virginia Mariane

Amante del buon cibo, di un libro, della storia, dell’archeologia, dei viaggi e della musica

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