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Sgarbi rende merito al Perugino, maestro di Raffaello

di | 2021-07-22T19:05:12+02:00 25-7-2021 6:20|Arte, Sezione 5|0 Commenti

PERUGIA – Stai a vedere che toccherà a Vittorio Sgarbi restituire un minimo di giustizia a Pietro Vannucci, il Perugino (1445-1523) snobbato, in pratica, nel corso delle celebrazioni per il mezzo millennio dalla morte di Raffaello Sanzio (1583-2020). Almeno nel titolo (“Perugino, il maestro di Raffaello”) la mostra appena inaugurata ad Urbino (rimarrà aperta sino al 12 ottobre) e curata appunto dal critico d’arte, sembra avviata sulla buona strada. Al contrario di quanto è avvenuto sino ad ora nelle esposizioni dedicate all’urbinate (compresa quella allestita nelle Scuderie del Quirinale a Roma) dove il tirocinio nella bottega peruginesca è stato appena sfiorato.

Eppure proprio nel capoluogo umbro Raffaello fu mandato per decisione del padre, Giovanni Santi, che in uno scritto definiva il Perugino “il pittore più affermato” del tempo. Il genitore – che voleva il meglio del meglio per il promettente figliuolo – morì e fu lo zio materno ad accompagnare il giovane, ancora minorenne, in Umbria. Che il Vannucci risultasse il più celebrato e quotato artista della tavolozza tra gli anni Ottanta ed il 1500 (per vent’anni, dunque), nessuno può negarlo. Pietro aveva lavorato per il papa a Roma nella cappella Sistina (gli era stata affidata, tra l’altro, la parte principale), a Firenze (e non solo per le ville di Lorenzo il Magnifico, affrescate insieme a Sandro Filipepi, detto il Botticelli), veniva incensato dallo stesso fra Girolamo Savonarola, ispiratore del governo teocratico fiorentino, al quale piacevano soprattutto le sue dolci Madonne, era tempestato di richieste dagli Este e dagli altri facoltosi magnati e mecenati dell’epoca, enti religiosi compresi. La stessa Perugia nel 1485 lo aveva insignito della cittadinanza onoraria (lui era nato a Città della Pieve).

Ed a Firenze, l’anno dopo, negli stessi locali – nelle vicinanze di Santa Maria Nuova, in quella che oggi è via Bufalini, allora via San Gilio – in cui Lorenzo Ghiberti aveva prodotto la celebre porta nord del Battistero, l’artista aveva aperto una bottega (oltre a quella perugina) con un buon numero di “aiuti” (quasi tutti “nostrani”) per poter tener dietro a tutte le richieste che gli piovevano addosso da ogni parte d’Italia. Giovanni Santi morì nel 1494, a 61 anni, e con ogni probabilità Raffaello arrivò a Perugia al massimo un anno o due più tardi (sebbene Giorgio Vasari sostenga che il giovanetto fosse approdato nella bottega del Perugino prima della morte del padre, deceduto quando il figlio aveva appena 11 anni). Comunque sia allo sbarco nella città etrusca, Raffaello era poco più di un ragazzino, anche se dotatissimo nel disegno e facilitato dall’aver frequentato, sotto la guida del padre pittore (ma soprattutto uomo di vasta cultura, anche letteraria), la corte urbinate in cui si muovevano, o avevano lasciato tracce artistiche, personaggi del calibro di Piero della Francesca, Giusto di Gand, Pedro Berruguete, Luciano Laurana, Melozzo da Forlì ed altri ancora).

Le pennellate di Raffaello giovane sono state individuate e riconosciute, dagli esperti d’arte, nella Pala di Fano (del 1497, commissione affidata al Perugino), in alcuni affreschi nel Collegio del Cambio (1498), nelle “grottesche” che compiaiono sulle pareti della stessa sede dei banchieri umbri (delle quali l’urbinate dev’essere debitore al Pinturicchio, che fu il primo a scoprirle nella “Domus Aurea” di Nerone a Roma e che lo chiamò con sé a Siena per i lavori nella Libreria Piccolomini), nell’affresco della chiesa di San Severo (dipinta tra il 1505 ed il 1508 e poi completata, nella parte inferiore, dal Perugino tredici anni più tardi). Durante il periodo giovanile, sotto l’influenza dell’artista umbro e di Luca Signorelli, Raffaello ricevette numerose ordinazioni da famiglie ed enti religiosi di Città di Castello, che si sia trasferito, fisicamente o meno, in Alta Val Tiberina. D’altro canto oltre ad Orvieto, nella sola Perugia gli furono commissionate a partire dal 1501 opere quali la Pala Colonna, la Pala degli Oddi, una Assunzione, la Pala Baglioni… Capolavori assoluti.

Insomma, prima della lettera di raccomandazione che la duchessa di Urbino Giovanna da Montefeltro inviò al gonfaloniere Pier Soderini – nell’ottobre 1504 – perché l’urbinate venisse tenuto in considerazione a Firenze (dove nel frattempo il “grido” nell’arte pittorica l’avevano conquistato Leonardo e Michelangelo), Raffaello era rimasto in Umbria, foss’anche saltuariamente, almeno otto anni pieni. Un lungo periodo di apprendistato, dunque. Anche se la duchessa scriveva: “…il quale (Raffaello) avendo buono ingegno nel suo esercizio ha deliberato di stare qualche tempo in Fiorenza per imparare. Perciò lo raccomando a vostra signoria”. Pur riconosciuto da tutti quale “magister”, Raffaello lasciava trasparire il desiderio di crescere, maturare, migliorare ulteriormente. Perugino, cinquantenne o poco più nella seconda parte degli anni Novanta, godeva di amplissima fama. Ed il giovane allievo deve essersi abbeverato con entusiasmo alla fonte del maestro se alcune delle sue opere ricalcano o si ispirano a quelle del Perugino.

Nel 1500 un notaio della città nello stendere un contratto tra il pittore ed un committente umbro, attribuisce a Raffaello, appena diciassettenne, il titolo di “magister”. La sua bravura, quindi, era già voce di popolo. Purtroppo del passaggio e della vita quotidiana di Raffaello a Perugia ed a Città di Castello non ci sono giunti particolari. Mentre di quella romana, sul piano dei rapporti privati, sappiamo che il pittore fosse di bell’aspetto, elegante nei modi, ricercato nel vestire, educato e, persino, impenitente conquistatore di donne. Un insaziabile Casanova, ante litteram. Tanto che per molti studiosi sarebbe morto a causa di eccessi amorosi. Chissà che non abbia spezzato cuori anche in Umbria…

Il Perugino, per tornare al tema, oltre che nella sua città, si era formato nella bottega del Verrocchio a Firenze, insieme ad artisti quali Leonardo, Botticelli, Lorenzo di Credi, Ghirlandaio, per citarne alcuni. Un apprendistato di alto prestigio, pertanto, che gli consentì di iscriversi alla fiorentina Compagnia di San Luca (un ramo, riservato ai pittori, dell’Arte dei Medici e degli Speziali) fin dal 1472. Nella città del Giglio, inoltre, al Vannucci fu possibile approfondire, analizzare, studiare (ed ammirare) le tele dei maestri fiamminghi, la cui influenza – assicurano gli esperti – si nota nella luminosità dei paesaggi. Alla mostra di Urbino sono presenti prestiti della Galleria Nazionale dell’Umbria, del museo di arte sacra e antica di Sutri, del tesoro del museo della basilica di San Francesco d’Assisi, della Galleria Nazionale delle Marche.

A disposizione dei visitatori pure due contributi video, che mettono a confronto lo “Sposalizio della Vergine” del Perugino (dipinto per la cattedrale di Perugia, ma finito a Caen, in Normandia) e la tavola dallo stesso titolo di Raffaello (fatta per la cattedrale di Città di Castello, ma ora esposta nella pinacoteca di Brera). Nel secondo video vengono, invece, mostrati venti capolavori del Perugino. Che si stia muovendo qualcosa di positivo in vista del quinto centenario (cade nel 2023) della morte di Pietro Vannucci?

Elio Clero Bertoldi

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