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Salgàri, papà di Sandokan e Corsaro Nero, non viaggiò mai

di | 2023-08-17T19:51:00+02:00 20-8-2023 5:20|Personaggi, Sezione 5|0 Commenti

PERUGIA – Fu una lavandaia, uscita nel pomeriggio del 25 aprile 1911, a far legna per il camino di casa, a trovarsi davanti l’orrendo spettacolo del cadavere di un uomo, completamente ricoperto di sangue raggrumato, con la pancia e la gola tagliate. “Orribilmente squarciato da larghe ferite”, riportò un anonimo cronista de “La Stampa”, il mattino successivo. Che la donna si chiamasse Luigia (Quirico), come la madre della vittima (di cognome Gradara), resta un particolare toccante, ma ininfluente. Agli atti è rimasto che la lavanderina, di soli 26 anni, avvertì prontamente i contadini dei cascinali della zona e segnalò alle autorità il macabro rinvenimento sollecitando l’intervento delle forze dell’ordine.

Sul luogo – Bosco San Martino, sopra la chiesetta della Madonna del Pilone a Torino – si portò, dopo la concitata, tragica denuncia, il delegato Pappalardo con alcuni agenti. Poco più tardi sopraggiunse l’ufficiale civile d’igiene, Borione. Sulle prime agli investigatori sembrò di trovarsi sulla scena di un agghiacciante omicidio, ma i poliziotti rinvennero stretto, nella mano destra della vittima, un affilato rasoio. Scontato ipotizzare il suicidio. Nelle tasche del vestito, poi, saltarono fuori 5 lire d’argento e, soprattutto, la ricevuta di un pacco inviato alla casa editrice Bemporad di Firenze, con l’indicazione dell’inviante: Cavalier Salgàri. Ed il titolo dell’ordine della Corona lo aveva ricevuto, su nomina della regina Margherita, proprio il giornalista e scrittore Emilio.

Sì, il corpo senza vita risultò essere di Emilio Salgàri (1862-1911), abitante a poche centinaia di metri di distanza in linea d’aria, in corso Casale, numero 205. E nell’abitazione del deceduto ecco tutta una serie di lettere scritte ai figli, ad alcuni editori di giornali e di libri, che spazzarono via ogni ulteriore dubbio: lo scrittore aveva scelto un modo feroce e truculento come il “harakiri” (o “seppuru”) per chiudere la propria esistenza. Una fine da samurai.

Non prima di aver accusato gli editori di aver lasciato lui e la sua famiglia in semi-povertà, o anche peggio, arricchendosi, però, alle sue spalle costretto com’era a licenziare pagine a getto ininterrotto. In una missiva, indirizzata ai figli, anche l’indicazione della località in cui si sarebbe ucciso: i “burroncelli” nelle vicinanze di villa Rey. E la “confessione” della sua sconfitta: “Sono un vinto. Non vi lascio che 150 lire, più un credito per altre 600 che incasserete dalla Signora…”. Fatima, la figlia maggiore, confessò agli inquirenti, che un paio di anni prima era stata lei stessa ad impedire al padre di gettarsi su una spada nel modo preferito dagli antichi romani.

Quindi l’azione violenta di Salgàri contro se stesso rappresentava un qualcosa che aveva radici profonde e che, quel giorno, era stata programmata e portata a compimento con macabra, feroce precisione e fredda determinazione. Il luogo del ritrovamento del cadavere, ricadeva nei terreni di proprietà del casato dei Rey, che a poca distanza trascorrevano lunghi periodi nella loro villa di campagna, un posto che, spesso, quando i ragazzini erano piccoli, risultava meta dei picnic domenicali di Emilio e di sua moglie, l’attrice di teatro Ida Peruzzi (1866-1922). Forse ricordo di momenti di spensieratezza, di felicità.

Difficile escludere che, in aggiunta allo “stress” del lavoro, sulla decisione di farla finita non abbia influito anche la malattia della moglie, da alcuni anni caduta in preda alla follia (episodi iniziali già nel 1903) e ricoverata nel manicomio di Torino (dove si spegnerà undici anni dopo la morte del coniuge), appena pochi giorni prima, agli inizi di aprile. Per di più da diverso tempo ormai, per reggere il ritmo incessante di scrittura preteso dagli editori (due-tre romanzi l’anno), il cavaliere fumava senza freni (un centinaio di sigarette al giorno: tanto da venir colpito da una grave malattia agli occhi a causa del fumo) e beveva, in aggiunta e senza posa, bicchieri e bicchieri di Malvasia. Fumo e alcol minarono il fisico dell’uomo, che era basso (si faceva porre alle scarpe tacchi aggiuntivi dal calzolaio per apparire più alto) e tarchiato. Figura anonima, dunque. Unico vezzo i grandi baffi con le punte rivolte all’insù.

Per tornare alla fine cruenta e persino sadica dello scrittore, anche il padre di Emilio, Luigi agiato commerciante di tessuti, aveva optato per il suicidio, lanciandosi giù da una finestra della propria abitazione. Ed anche due dei quattro figli (Romero ed Omar) si sarebbero tolti volontariamente la vita, mentre la primogenita Fatima era spirata per tisi, poco dopo il padre e il secondogenito, Nadir, finirà vittima, nel 1936, di un terrificante incidente stradale. Insomma: una famiglia a dir poco segnata, se non addirittura iellata.

Emilio era nato e cresciuto a Negrar, in Valpolicella, nel veronese, e aveva studiato a Venezia all’Istituto Tecnico Nautico “Paolo Sarpi”, con l’idea di diventar capitano di lungo corso su qualche nave. Ma interruppe gli studi che, all’evidenza, non gli si addicevano e, tornato a casa, si diede invece al giornalismo prima col settimanale “La Valigia”, quindi ne “La Nuova Arena” ed infine ne “L’Arena”. Risulta che nel 1885 sfidò a duello un collega de “L’Adige”. Dopo il matrimonio (1892) la famiglia si spostò in Piemonte (Ivrea prima, Cuorgnè poi, quindi Alpete); successivamente si trasferì a Genova, a Sampierdarena. Dove frequentò e divenne amico fedele di uno degli illustratori migliori dei suoi lavori, Pipein Gamba, al secolo Giuseppe Garuti.

Aspetto singolare: nonostante i romanzi descrivessero territori esotici e selvaggi di ogni  parte del mondo, Salgàri si mosse poco o niente: fu un “viaggiatore virtuale”. Il percorso più lungo, senza spostarsi dall’Italia, lo aveva compiuto sulla nave durante una esercitazione scolastica dal Veneto alla Puglia lungo la costa del Mar Adriatico. Per redigere le sue storie si documentava con pignoleria: leggeva Verne e Stevenson e, in primis, i giornali illustrati di viaggi. A Torino, poi, frequentava quasi ogni giorno la “Biblioteca Civica Centrale” che gli metteva a disposizione mappe, atlanti, dizionari, tutto materiale utile per i suoi scritti. Dai quali sono usciti qualcosa come 80 romanzi, un centinaio di racconti e ben più di 1300 personaggi. Frutto, gli uni e gli altri, della sua fervida inventiva.

Elio Clero Bertoldi

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