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La scuola-azienda che non sa più educare

di | 2018-10-14T09:24:07+02:00 14-10-2018 6:15|Attualità, Sezione 4|0 Commenti

NAPOLI  – Nel dopoguerra c’era un analfabetismo di massa che rendeva il popolo debole, fragile e così il Paese intero, giovane per unità. Si parlavano dialetti/lingue diverse perché diversi i ceppi originari. Il divario culturale tra le regioni era enorme e ne portiamo i segni ancora oggi. La scuola è stata allora la panacea per alfabetizzare e unificare la lingua di Stato. I politici di allora, i nostri costituzionalisti fondatori, avevano chiaro il compito di quanto la scuola avesse funzione significativa ed educante di un popolo intero. Dalla riforma Gentile del 1923  la scuola di Stato dà a tutti i bambini, indifferentemente dalla propria estrazione sociale, la possibilità di migliorarsi ampliando i propri confini culturali. Il maestro era colui che, dopo il padre, in senso figurativo, aveva l’autorevolezza di formare il futuro cittadino.

Il climax si è avuto con la riforma programmatica degli anni ’80, nella scuola allora detta elementare dove si introducono nuove materie come l’educazione all’immagine con largo anticipo per quella che sarebbe diventata la società di oggi che vive di immagini a discapito della parola. Ma dove si è arrestata questa crescita? Cosa ne è stato della scuola dagli anni 90 in poi? Dove sono finiti gli alti fini educativi di un popolo? La politica degli ultimi 30 anni ha passo dopo passo sgretolato un sistema democratico scolastico per piegarlo a sistemi aziendali utilitaristici che niente hanno a che vedere con la sua funzione primaria.

L’inizio della fine è stato il decentramento e l’autonomia nelle scuole, il considerare la scuola un’azienda con il preside manager proiettato sul profitto non più per i suoi alunni, ma degli utenti: i genitori narcisi che vogliono e scelgono una scuola che renda facile ed agevole il percorso scolastico ai loro figli. Gli alunni diventano il prodotto aziendale, così l’insegnante operaio solo un mero esecutore. Senza fondi statali, di anno in anno sempre più esigui, la buona scuola è oggi quella che accaparra più fondi europei, i cosiddetti PON: non importa la ricaduta o meno sugli studenti o l’esito della realizzazione degli stessi, ciò che conta è confezionare al meglio il progettino di turno, meglio se si è scuola a rischio. Meglio se intervengono associazioni esterne; i docenti, sempre più depauperati del proprio ruolo possono al massimo essere tutor d’aula per tenere a bada alunni disinteressati al nulla.

Non importa se in queste associazioni, col dovuto distinguo, spesso si improvvisano educatori impreparati, importante è il mezzo non il fine. Spesso questi progetti si svolgono in ore curriculari togliendo spazio e tempo ai fondamenti della conoscenza necessari invece per decodificare la realtà. Il docente di merito è colui che si adegua al sistema nuovo, magari il burocrate di turno, che aiuta a confezionare il progettino col copia e incolla. Il  bonus di merito ha innescato poi una competizione malsana tra i docenti sempre più gerarchizzati tra chi assume carichi dirigenziali minando le fondamenta relazionali  della comunità educante.

Negli anni si sono succeduti diversi ministri dell’istruzione di colore politico diverso, ma tutti accomunati da un unico intento: la distruzione della scuola pubblica, fucina ormai di ragazzi ignoranti e disinteressati verso chi non si interessa a loro. I programmi delle scuole secondarie sono ancora quelli del ’23, non si studia la storia del Novecento ad esempio, un secolo che ha cambiato il mondo radicalmente. Intanto per una fantomatica modernità si fanno largo le nuove metodologie: la classe capovolta, il pensiero computazionale, i test Invalsi che pretendono di essere sostitutivi della tradizionale lezione di classe.

Per carità hanno la loro valenza, ma il coding per esempio, che i bambini amano, non è forse la pratica delle cornicette sui quaderni che si facevano anni addietro? E il corsivo è davvero una mera pratica estetica? Nulla di nuovo se non un depauperamento dell’attività didattica dei saperi primari. Bandita la lezione frontale, eppure quella lezione era capace di creare relazione, attenzione, rispetto dell’adulto; certo, un adulto capace di trasmettere passione e desiderio del sapere. Magari anche noia e frustrazione  perché i docenti non sono intrattenitori, non sono perfetti ma educano a vivere, se gli si dà dignità di un ruolo sempre più svilito dai più con tutte le sfaccettature, di cui la vita è fatta.

E’ in crescita, invece, l’analfabetismo culturale dell’anima.

Angela Ristaldo

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