MILANO – Nel 54 Seneca scrive un’opera inquadrabile nel genere della satira/menippea “Ludus de morte Divi Claudii”, tramandata anche con il titolo “Ἀποκολοκύντωσις / Apokolokuntosis), neologismo formato dalla crasi dei termini greci κολοκyνθη /kolokynte (zucca, simbolo di stupidità) e ἀποθέωσις /apoteosi (rito con cui si deificavano gli imperatori dopo la morte). La trama descrive il processo di zucchificazione o di celebrazione dello zuccone Claudio imperatore inetto che, sul punto di divenire dio, sprofonda invece in una dannazione che lo ricopre di ridicolo. L’opera capovolge, quindi, l’assunzione tra le divinità del mortale sovrano e ne demistifica l’operato terreno, sino alla volgare rappresentazione degli ultimi suoi momenti con il ricorso a lessico ed immagini scurrili.
Scrive l’autore irriverentemente: «Spirò… L’ultima sua voce a essere udita fra i mortali, dopo aver lasciato andare un gran rumore da quella parte del corpo con cui parlava più facilmente, fu questa: “Ohimè! Mi sono, credo, smerdato!” Che l’abbia fatto davvero non so: certo, ha smerdato ogni cosa (“Vae me, puto, concacavi me!” Quod an fecerit, nescio: omnia certe concacavit)». Seneca riteneva di avere giuste motivazioni per detestare Claudio, responsabile del suo esilio in Corsica dal 41 al 49, ma non è certo motivo di vanto l’aver composto una satira post mortem contro di lui né tanto meno averne redatto l’elogio funebre di pura circostanza ad uso di Agrippina e Nerone che, quasi certamente, lo avevano avvelenato con una pietanza a base di funghi non edibili. In questa opera l’autore latino, per evidente interesse personale, mette da parte il senso dell’equilibrio e dell’apàtheia/impassibilità del sapiens stoico, da lui tanto auspicati nei suoi trattati filosofici.
Tanti, purtroppo, nell’esercizio del potere non sono stati immuni ad atti di incoerenza e al ricorso, in carenza di idee, alle “parolacce” piuttosto che alle parole supportate da sensate argomentazioni. Gli esempi non mancano e, solo per restare negli ultimi decenni, basterebbe citare in maniera bipartisan Bossi che ha dato dello “stronzo” a Casini e Fini, La Russa all’attore Amendola, Rosy Bindi a Pannella, Biden a Netanyahu, Kamala Harris a Trump, De Luca a Meloni e viceversa. Si può mettere fine a questo stucchevole elenco, citando Sgarbi che ha apostrofato in questo modo chiunque. Anche senza ricorrere a indignate geremiadi sul rispetto delle idee altrui, sulla decadenza dei tempi, sull’educazione, va evidenziato il dubbio su dove sia mai finito il senso, il valore ed il decoro delle istituzioni. Come se non bastasse, questa sorta di “coprofilia” lessicale è stata superata da un recente episodio di violenza che lascia di stucco. È accaduto tra le due Coree dove, dopo la guerra del 1950-1953 conclusasi con un armistizio e non con un trattato di pace, purtroppo pericolose tensioni sono ancora accese.
Dalla Corea del Nord, in risposta al lancio su Pyongyang di volantini inneggianti a valori democratici e di condanna per il leader nordcoreano Kim Jong Un, sono stati scagliati contro i territori del Sud palloni aerostatici pieni di escrementi e rifiuti, compresi quelli speciali. Atti così disumani e volgari sono segno di una evidente regressione dell’intera civiltà a ritroso nel tempo, fino a giungere quasi a quello “della pietra e della fionda”, per dirla con Quasimodo. L’operazione è stata sarcasticamente denominata shit storm per “forzata” (!!) analogia con quella detta desert storm (prima guerra del Golfo agosto 1990 – febbraio 1991) condotta dagli Usa, alla guida di una coalizione internazionale e sotto l’egida dell’ONU, contro le truppe irachene che avevano invaso il vicino Kuwait. Non si può che registrare miseramente questo ulteriore imbarbarimento lessicale accanto a quello, sicuramente più grave, politico-strategico.
Quanta dignità, al contrario, nelle parole di Giacomo Matteotti che, nel suo ultimo discorso alla Camera (30 maggio 1924), denunciò i brogli, le intimidazioni, le violenze verificatisi durante le elezioni del 6 aprile 1924 e fece ricorso al bellissimo neologismo “parlamentarmente” (“Io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente!”), mettendo così in primo piano la sacralità delle istituzioni, oltre che la difesa delle garanzie e libertà parlamentari, ormai prossime ad essere soffocate, insieme alla sua vita, dalle cosiddette leggi fascistissime. Stessa dignità, forse declinata un po’ meno “patriotticamente”, nella risposta di Diocleziano. Si narra che l’imperatore, ritiratosi nel 305 a vita privata per dedicarsi all’agricoltura, avesse così ribattuto alla richiesta di riprendere le redini del potere: “Se voi sapeste come sono buoni i cavoli del mio orto, non mi fareste una domanda simile!”.
Alla fine, un’opzione del genere potrebbe risultare corretta e auspicabile per tanti statisti e politici del quadro contemporaneo mondiale.
Adele Reale
Nell’immagine di copertina, i palloni aerostatici pieni i rifiuti lanciati dalla Corea del Nord
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