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Di nuovo a tavola con gli antichi romani

di | 2024-05-17T12:09:35+02:00 19-5-2024 5:10|Cultura, Sezione 3|0 Commenti

BORGOROSE (Rieti) – “A tavola con gli antichi romani – storia, aneddoti e tante ricette per scoprire come mangiavano i nostri antenati culturali” (ed. Efesto) scritto da Giorgio Franchetti, archeologo e storico dell’arte, con l’intervento culinario dell’archeocuoca Cristina Conte. Un incontro godibilissimo al Museo Archeologico del Cicolano a Corvaro di Borgorose, con degustazione finale. Sapori insoliti, ma gradevoli, pane preparato con farine macinate a pietra dalla stessa Cristina, vino speziato (da non far invecchiare, perché fermenta troppo), pesto di olive, focacce con semi di papavero o ricotta. La conoscenza di un popolo passa anche attraverso la cucina, gli usi e costumi, ma se oggi è facile intuire la cucina in un’isola, dove il pesce sarà predominante, o di montagna, con cacciagione e formaggi, parlare della cucina degli antichi romani è più complesso, perché, come fa osservare Giorgio Franchetti, la domanda da porsi è “in quale momento della storia romana?”, “dove nel territorio romano?” e ancora “in quale strato sociale?”.

Giorgio Franchetti e Cristina Conte

Il graduale allargamento del territorio a seguito delle conquiste trasformò il gruppo laziale dei populi albenses, inizialmente prevalentemente vegetariano (Plauto definì i Romani mangiatori di erbe), in un popolo che durante l’impero diventò sempre più esigente e avido di novità culinarie, che spese soldi per ordinare cibi esotici da terre lontane, per stupire i propri commensali ed esibire la propria ricchezza. Questo ovviamente valeva solo per i ricchi, i poveri avevano il vantaggio di non rovinarsi la salute con un’alimentazione eccessiva, ricca di salse, grassi, spezie, cotture prolungate che impoverivano gli alimenti. Certo le lingue di fenicotteri, i cervelli dei pavoni, lattigini di murene, potevano solo sognarli. Le anfore che si continuano a trovare nei fondali marini ci raccontano ancora quando e da dove sono partite, a chi erano destinate, cosa contenevano. Se ne trovano molte, i traffici via mare erano intensi e la navigazione a mezza costa.

Glirarium, recipiente per allevare i ghiri

La prima parte del libro è storico-saggistica, molte scoperte sono state fatte a Pompei ed Ercolano, da disegni, incisioni, affreschi, che rivelano le abitudini casalinghe e quelle nelle taverne, mostrando come esistesse già il cibo da asporto, lo street food, gli ambulanti, recipienti in cui mettevano a ingrassare i ‘ghiri’, il costo di un pranzo, i negozi, il forno (a Pompei era famoso Modestus e il suo ultimo pane imperiale è giunto fino a noi, sepolto dalla lava, studiato dai ricercatori del British Museum)). Il primo pane primordiale fu con la farina d’orzo, il lievito fu scoperto per caso in Egitto, la Grecia sfornava 72 diversi tipi di pane. La seconda parte è dedicata alle ricette “ma non avranno mai lo stesso sapore di allora, perché i metodi di cottura, i recipienti usati non sono gli stessi, non abbiamo le dosi e carne, pesce, non esistendo il frigorifero come venivano trattati? Erano affumicati, seccati, sotto sale?”. Gli ultimi due capitoli sono dedicati proprio ai metodi di conservazione dei cibi per lungo tempo e alla raccolta di aneddoti divertenti e intriganti.

I Romani facevano colazione, pranzo e cena, quest’ultima era il pasto più importante, dopo le terme, all’ora nona, preceduta da offerte ai Lari e ai Penati (ripetute alla fine), mentre il pranzo era frugale. Plauto e Orazio riferiscono le diverse tipologie di verdure presenti sulle tavole e come i Romani tendessero a mischiare cibi e sapori. Molto usati i cereali, soprattutto il farro che veniva macinato (il nome farina deriva proprio da farro), cotto in acqua, sale e latte, facendo una specie di polenta a cui aggiungevano fave, cavoli, cipolle, formaggio e più raramente carne o pesce, ottenendo la satura (da qui il temine saturo). Plinio scrive che “i Romani vissero per molto tempo di polta, non di pane” definendoli “pultiphagonides”. Altri cereali erano il miglio e l’orzo che per le sue proprietà era il cibo dei gladiatori.

Pane carbonizzato a Ercolano

Il passaggio dalla Repubblica all’Impero segna un passaggio importante nel cambio di alimentazione e di abitudini ed è proprio nell’età imperiale che si iniziano a scrivere libri di cucina. Le ricette di Columella sembrano più orientate ai ceti sociali meno abbienti, Apicio ai più ricchi. Nella vita quotidiana mangiavano seduti a tavola, il triclinio era solo per i grandi banchetti, che dovevano essere memorabili, ostentare il lusso, perché “tutti dovevano parlarne a lungo”. C’erano triclini a più posti e le posizioni erano determinate dal rango e ruolo della persona. I resti del pasto, lische di pesce, ossa, bucce, venivano gettati sul pavimento, tanto c’erano gli schiavi ‘scopari’. Della moda di stupire con piatti esotici parlò Marziale: “Non è sufficiente per te, Tucca essere goloso: vuoi che così si dica di te, e così apparire”. Nel suo Satyricon, Petronio ci ha lasciato la descrizione dei banchetti e il ruolo dei cuochi: più le pietanze erano elaborate, più venivano apprezzate. Augusto era morigerato, preferiva il pane comune, i pesciolini, formaggio di vacca pressato a mano, i fichi freschi e beveva al massimo tre bicchieri di vino. Adriano amava un pasticcio di pasta dolce, chiamato ‘tetrafarmaco’ ripieno di vari tipi di carne e cacciagione, Caligola ingeriva perle disciolte nell’aceto e cibi cosparsi d’oro in polvere, Gallieno banchettava in pubblico.

Apicio, criticato da Marziale, fu il più grande tra gli scialacquatori, ma il termine luculliano, deriva da Lucio Licinio Lucullo, aristocratico, uomo di cultura, comandante militare, morigerato, ma organizzatore di grandi banchetti: nella sua casa romanda aveva 12 sale da pranzo, ognuna dedicata a un Dio. Gli schiavi di casa capivano subito quali prelibatezze preparare e quanto spendere solo sentendo in quale stanza avrebbe banchettato. A lui si deve l’arrivo in Occidente della pianta del ciliegio dal Ponto, dell’albicocca dall’Asia Minore e una varietà di marmo dall’isola di Melo, l’innovazione delle ‘coltivazioni’ di pesci ritenuti pregiati, come le aragoste, le murene e i gamberi nella sua villa a Baiae (Bacoli). La tavola era apparecchiata con un cucchiaio di legno, ciotole, bicchieri di legno o terracotta, i coltelli venivano usai dai servi per tagliare le pietanze, nelle case povere i piatti erano una sorta di gallette, fatte da farina e acqua indurita. E adesso una ricetta da Catone, da De agricultura, la polta cartaginese: impastare la semola in acqua fredda, metterla in una pentola con altra acqua e mettetevi il pecorino a pezzettini, il miele e le uova. Cucinare a fuoco lento, mescolando di continuo, sale a volontà. Pulsa fabata, farinata di fave da Plinio, Naturalis Hìstoria: bollire dell’acqua salata, aggiungere il farro e mescolare fino a cottura completa. Stufare a parte fave e cipolle, aggiungere Garum (salsa liquida di interiora di pesce e pesce salato, oggi potremmo usare la colatura di alici di Cetara) e olio. Mischiare e impiattare a parte.

Francesca Sammarco

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