//Quando “il cielo scoppierà” noi speriamo che ce la caviamo

Quando “il cielo scoppierà” noi speriamo che ce la caviamo

di | 2019-03-25T14:29:48+01:00 25-3-2019 14:03|Alboscuole|0 Commenti
di GIUSEPPE CARDINALE 

La storia

Nel lontano 1992, quando noi liceali di oggi non eravamo ancora nati, usciva in Italia, diretto da Lina Wertmüller, il film Io speriamo che me la cavo. Il film (girato, tra l’altro, in buona parte a Taranto) racconta la breve avventura al sud di Marco Tullio Sperelli (Paolo Villaggio), maestro di scuola elementare trasferito per errore alla scuola di Corzano, comune nel napoletano, quando sarebbe invece dovuto andare a Corsano, paesino ligure. Sperelli, già infastidito per l’imprevisto, trova ad attenderlo un paesino sporco e in rovina: persino gli edifici pubblici sono vistosamente fatiscenti. Nel bar della piazzetta centrale incontra Vincenzino, un bambino impiegato illegalmente come barista che gli spiega in poche parole tutta la dura realtà di Corzano: la camorra e la totale assenza delle istituzioni. Quando il maestro entra in classe, nella 3ªB della scuola Edmondo De Amicis, trova ad attenderlo solo tre bambini. Il bidello, come molti altri un complice della camorra anche lui, lascia intendere che è normale che sia così e, come faranno tutti i personaggi durante il film, prende in giro Sperelli per le sue pretese di legalità. Ma il maestro, caparbio, esce da scuola e va a prendere i bambini nei loro luoghi di lavoro e li trascina tutti quanti in classe. Il livello di istruzione e l’educazione degli alunni lasciano davvero a desiderare: parlano tutti napoletano, così Sperelli per entrare in rapporto con loro decide di imparare il dialetto. La missione educativa pare impossibile, ma pian piano i bambini si avvicinano a lui e cominciano a frequentare la scuola con entusiasmo (e imparano anche l’italiano). Purtroppo però la presenza di Sperelli a Corzano è invisa ai potenti criminali del luogo che, avendo la complicità della preside della scuola, ottengono per il maestro il trasferimento che mesi prima questi, affezionato ai bambini, aveva rifiutato. A salutarlo alla stazione ci sono tutti i suoi alunni. “Io non vi dimenticherò mai, neanche quando sarete morto” dice qualcuno, e qualcun altro chiede se potrà scrivergli lettere. Pochi attimi prima della partenza del treno arriva anche Raffaele, un bambino già avviato alla malavita ostile al maestro fino all’ultimo, e gli consegna il suo tema per le vacanze di Pasqua. “Perché la scuola la schifo, ma voi no” gli dice. Nella celebre scena finale del film Sperelli ormai in viaggio legge il tema di Raffaele, dove è raccontata la “parabola della fine del mondo”: “Il mondo scoppierà! Le stelle scoppieranno! Il cielo scoppierà! Corzano si farà in mille pezzi. I buoni rideranno e i cattivi piangeranno […] e io, speriamo che me la cavo”.  

Fare scuola come il maestro Sperelli

La storia di questi bambini di Corzano è anche un po’ la nostra storia, la storia degli studenti italiani. Quegli adulti il cui unico hobby è biasimare i giovani dall’alto dei loro pulpiti in questo forse hanno ragione: è vero che siamo delle pecorelle smarrite (ma è anche vero che le pecorelle si smarriscono quando non c’è il pastore!). Noi, come i bambini di Corzano, abbiamo lasciato la scuola da tempo e a scuola siamo assenti anche quando sull’elenco segnano la nostra presenza. Siamo sulle nuvole, come si dice in questi casi. Ciò che non rende impossibile la grande impresa di svegliarsi presto ogni mattina è forse il fatto che alla fin fine andiamo anche ad incontrare i nostri amici: in fondo è per questo che in classe spesso facciamo chiasso anche durante la lezione, perché sono i nostri amici che ci interessano, non la lezione. Ma dire che non ci interessa la scuola non vuol dire che non ci interessa conoscere, che non ci lasciamo commuovere dalla bellezza del nuovo e del vero. Cosa vuol dire che i giovani divorino quotidianamente serie tv e musica se non che hanno fame di storie, di bellezza, di qualcosa che li stupisca? I giovani non fanno altro che parlare di bellezza: “Hai visto il nuovo film di..?”, “hai visto la nuova serie targata Netflix? Bellissima!”, “hai sentito il nuovo album di…?”; queste sono frasi quotidiane. E questa bellezza, forse un po’ ce lo siamo dimenticati, dovremmo trovarla anche a scuola, perché tutto quello che si studia nacque una volta dallo stupore e dalla passione di grandi geni. E la passione è qualcosa di vivente, nel senso che essendo traccia di una vita, di una esperienza umana, rimanda anche alla nostra esperienza, alla nostra vita. Pensiamo ad esempio a una poesia d’amore scritta secoli e secoli fa, ad esempio Tanto gentile e tanto onesta pare, il celebre sonetto di Dante Alighieri. L’autore è morto da secoli, la sua lingua sopravvissuta solo grazie alle sue poesie (e a quelle di altri geni come lui, ovviamente): stiamo parlando di un uomo lontanissimo nel tempo, estraneo al nostro secolo per modi, credenze, lingua e tanto altro; eppure non c’è studente che studiando quel sonetto a scuola non abbia sospirato e pensato “alla sua donna”, a cui “li occhi non [l’]ardiscon di guardare”. Non a caso è un sonetto che molti conoscono a memoria, o come si dice meglio in inglese by heart o in francese par coeur, col cuore. Questo incontro con i grandi autori accade quando si riesce a cogliere l’esperienza umana a cui rimanda un’opera, una traccia di una vita passata che però, essendo stata appunto vita umana, è anche vita presente, perché capace di influenzare la vita del lettore, proprio come può Il maestro Sperelli con i bambini di Corzano Civico 106 18 influenzarci la conversazione con un amico. Dunque per rintracciare la vita nelle opere bisognerebbe cominciare a trattare questi geni come uomini, cioè quel che furono, e cominciare a chiedersi, quando ad esempio si legge un testo: “Ma cosa ha visto questo di così bello da dovercelo comunicare? Di che esperienza sta parlando?”. Perché ogni dipinto, ogni idea, ogni poesia nasce quando si fa esperienza di una bellezza che ci lascia senza fiato. E questa bellezza è una scoperta così importante che ci spinge a chiamare gli altri, a farla scoprire anche agli altri: proprio come quando dopo aver visto un film che ci ha colpito, che magari ci ha fatto anche commuovere, andiamo da un amico e glielo consigliamo con convinzione. I giovani possono tornare a commuoversi anche davanti a ciò che si studia a scuola, ma solo se entriamo veramente nel cuore degli autori. Per fare ciò bisogna tornare a parlare dell’esperienza umana, bisogna entrare nel profondo intimo di ogni autore e capire cosa vedeva, a cosa pensava davvero quando scriveva o dipingeva. Solo allora gli studenti taceranno e ascolteranno, quando anche loro avranno visto. Quando anche loro avranno visto la vita, la loro, in ciò che a scuola si insegna. Fare come il maestro Sperelli quando uscì da scuola e andò a ripescare i bambini nei loro luoghi di lavoro, o come quando poi imparò il dialetto, significa uscire dallo schematismo nozionistico e andare a recuperare il cuore degli studenti. Quando un professore, riuscendo a far rivivere gli autori, fa questo, allora non lo si dimentica più, neanche quando sarà morto, come dice a Sperelli il piccolo Nicola, perché diventa il nostro maestro e i suoi insegnamenti non solo rimarranno con noi, ma vivranno in noi. Nel film persino Raffaele, colui dal quale ci si aspettava di meno (perché era un camorrista), alla fine si avvicina al maestro e scrive il suo tema. Per catturare anche i giovani più vivaci c’è bisogno di una scuola che torni, prima che a istruire, a formare i ragazzi; una scuola che smetta di dare concetti e che cominci a discuterli, insegnando attraverso il dialogo e invitando a mettere in gioco la propria esperienza e ad analizzarla con l’aiuto degli autori. Perché la formazione conta, non è boicottabile: se non sei formato non sai vivere la vita, e se non sai vivere la vita fai del male a te stesso e poi quindi anche agli altri. Perché se la scuola non ci forma un giorno ci troveremo a fare i conti con noi stessi senza avere gli strumenti, e a quel punto “Il mondo scoppierà, le stelle scoppieranno, il cielo scoppierà” e noi, davvero, speriamo che ce la caviamo.