//Le otto montagne di P. Cognetti: quando la montagna è metafora della vita

Le otto montagne di P. Cognetti: quando la montagna è metafora della vita

di | 2020-12-21T18:02:52+01:00 21-12-2020 18:02|Alboscuole|0 Commenti
Di Rosaria di Ruvo   L’approccio di Paolo Cognetti al contenuto del suo romanzo (approccio che gli è valso il premio strega dell’anno in corso) sembra essere quello che uno scalatore potrebbe avere con una montagna con cui sente di avere una relazione di un certo tipo. Una relazione maturata in tanti anni di frequentazione, che riserva consolazione per gli aspetti che di essa si conoscono a sufficienza,  inquietudine ed eccitazione per il tanto che invece è ancora da scoprire. Un po’ come succede con le relazioni fondamentali della vita di chiunque. Chi frequenta la montagna sa bene quanto una semplice passeggiata possa ricollegare a certe parti di se stessi, lasciar affiorare una nuova narrazione dei propri ricordi e delle proprie questioni irrisolte.  Inevitabilmente, passeggiando lungo i sentieri all’ombra di folti boschi, o lungo i fianchi di roccia liscia, ci si ritrova a pensare a se stessi,  a sentirsi riecheggiare tra quegli elementi così diversi in cui ci si immerge. Il romanzo di Cognetti sembra voler fare proprio questo tentativo: tirar fuori, attraverso le molteplici immagini della montagna, le asperità, la dolcezza, la semplicità di legami essenziali quali sono quelli tra i componenti di una famiglia. Il lettore, probabilmente, potrebbe non immedesimarsi nei membri di quella famiglia: un padre appuntito e cupo come l’ultima parete da scalare prima di raggiungere una vetta, con buone gambe ma con poca calma e pazienza per vivere in città; una madre paziente, forte, costruttrice di legami; un figlio silenzioso che in un primo momento  osserva e imita i propri genitori, in un secondo momento, come sempre accade nel rapporto tra genitori e figli, si allontana e tradisce.  Tuttavia, per quanto lontani ci si possa sentire da quei modelli di personalità descritti dal figlio Piero, Io narrante interno alla storia, tanto più si riesce a sentire propri i vari percorsi che quei personaggi compiono per arrivare a conoscersi. Percorsi che possono essere in quota come quelli che compie il padre ogni estate nel tentativo di svelare il segreto della formazione dei  ghiacci perenni, per guardare dall’alto il percorso  di vita che si è compiuto, per capire  se il dolore che lo tormenta potrà mai sciogliersi come gli strati di ghiaccio più recenti. Possono essere a valle come quelli che compie la madre che si aggira e attraversa boschi che già conosce, più interessata a scoprire i sentieri che conducono al cuore della gente schiva che abita a valle e in particolare dei bambini soli e silenziosi come Bruno, futuro amico del narratore Piero. Il romanzo racconta anche di una storia di amicizia tra i due ragazzi, futuri uomini: dell’andare e tornare di Piero e del restare perenne di Bruno. Un restare di quest’ultimo  che non significa immobilità, ma lenta trasformazione, come accade a  Piero  il quale tornerà trasformato dalla vita che avrà vissuto lontano dalla montagna di Bruno. Sarà  la storiella raccontata da un portatore di galli sulle vette dell’Himalaya, da cui è tratto il titolo del libro, a spiegare questa verità al protagonista.  Vivendo vite lontane e parallele i due racconteranno di esperienze agli antipodi, l’una fatta di solitudine, di scoperte di mondi lontani e di un passato famigliare da accettare più che capire, l’altra fatta di duro lavoro, della fatica di costruire muri e relazioni d’amore, di sapienza nel riconoscere ciò che può essere solo male, anche se ha le parvenze di un padre, e sapersene liberare, anche se questo può significare usare la forza. I due ragazzi saranno uniti da un’invisibile corda che può rappresentare la salvezza sia per l’uno che per l’altro; come in cordata, quando loro due, ancora ragazzi, salivano con il padre di Piero verso i ghiacciai; nonostante il tempo che, inesorabile, scorre come il torrente lungo il quale i due si sono incontrati e conosciuti. Un torrente che sarà un esplicito simbolo del tempo che scorre a ritroso perché se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, (…) allora il passato è l’acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso e dove non c’è più niente per te, mentre il futuro è l’acqua che scende dall’alto portando pericoli e sorprese. Il passato è a valle, il futuro a monte. Sarà infatti  in alto, su quella stessa montagna, che il padre di Piero vorrà che quel figlio che lo ha rinnegato, costruisca, con l’aiuto di Bruno un suo personale rifugio, dove annidarsi di tanto in tanto e rinascere. Una casa sulla roccia che per essere costruita ha bisogno di un  distacco totale da  ogni logica del mondo civilizzato, pur non potendo rinunciare del tutto ad esso, come non si può rinunciare al cemento, che, tuttavia, bisognerà portare su in groppa ad un asino recalcitrante. Un’immagine questa del rifugio che può essere come metafora del rapporto dell’uomo con la natura e che solo Bruno, grazie alla sua esperienza di montanaro,  riesce ad interpretare senza cadere nel sentimentalismo. Diceva: senza cemento le case non stanno in piedi, e senza concime non cresce nemmeno l’erba nei pascoli, e senza benzina voglio vedere come tagliate la legna. D’inverno che cosa pensate di mangiare, polenta e patate come i vecchi? E diceva: siete voi di città che la chiamate natura. È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare un nome non glielo diamo perché non serve a niente. È una natura dalla bellezza sfolgorante. Una bellezza che non può far a meno di rimetterci di fronte alla durezza della vita e a tutta la strada faticosa che l’uomo ha dovuto compiere per viverci. Cognetti ha scritto  una storia che sembra venire da lontano, piena dei suoi stessi ricordi, come lui stesso dice, e che ha il sapore dolce aspro dell’approccio essenziale agli altri e al mondo nei suoi elementi naturali. Un romanzo che fa venir voglia di indossare gli scarponi e camminare lungo mulattiere e sentieri, inerpicarsi lungo vette personali per vedere a che punto della propria vita si è arrivati e di lì ripartire verso altri territori di se stessi.