//Di cosa parliamo quando parliamo di Carver

Di cosa parliamo quando parliamo di Carver

di | 2020-12-21T17:36:25+01:00 21-12-2020 17:36|Alboscuole|0 Commenti
Di Rosaria di Ruvo   I racconti di Carver sono una specie di sabbie mobili da cui si esce  con grosse difficoltà. Non basta aver chiuso una delle sue raccolte per sbarazzarsi del senso di invischiamento che si è vissuto durante la lettura di quei racconti brevi. Ci si rimugina su  ossessivamente, tanto che non si riesce a riporre i suoi testi con facilità sullo scaffale dei libri letti. Li si lascia un po’ in giro, li si riprende in mano, si rileggono alcune storie, alcuni passaggi di storie e, insoddisfatti, si passa a quello che i critici hanno scritto su Carver e sulla sua opera, e ancora non basta. Si arriva alle conclusioni – e tali non sono – che vorresti e non vorresti che i racconti si spiegassero un po’ di più, che i critici la smettessero di attribuirgli l’etichetta di minimalista visto che, per sua stessa ammissione, lui non si sentiva tale, e soprattutto vorresti  che lui avesse vissuto una vita più lunga da cui estrapolare gocce di verità da raccontare poi alla sua maniera. Non visse infatti una lunga vita. Morì a 50 anni nel 1988 dopo essersi spostato, alla ricerca di una vita migliore per lui e per la sua famiglia, in diverse città degli Stati Uniti, cambiando numerosi lavori.  Una vita difficile e dura che lo spinse ripetutamente verso la dipendenza dall’alcool. Dipendenza che fece naufragare la sua relazione con Maryann Burk con cui era sposato da quando aveva 19 anni e da cui aveva avuto due figli. Nonostante le difficoltà perseguì sempre il sogno di poter vivere di scrittura. Frequentò corsi di scrittura, lavorò nell’editoria cercando sempre, tra gli  impegni lavorativi e gli impegni di famiglia, un angolino di solitudine in cui rannicchiarsi e scrivere. Quella vita così frammentata gli impedì di potersi concentrare su progetti lunghi, e trovò nel racconto la forma narrativa a lui più congeniale. Ebbe il giusto riconoscimento per la sua opera di scrittore solo una manciata di anni prima che lui morisse. Carver ha pubblicato raccolte di racconti, tra le quali: Vuoi star zitta, per favore, Cattedrale, Di Cosa parliamo quando parliamo d’amore, Da dove sto chiamando, editate in Italia da diverse case editrici come Garzanti, Minimum Fax, Mondadori. Vuoi star zitta, per favore del 1976 è la prima raccolta che gli conferirà una certa fama, mentre Cattedrale fu editato nel 1983. I racconti di queste due raccolte parlano per lo più di coppie  o famiglie alle prese con la vita di tutti i giorni, poste in contesti problematici, o che potrebbero esserlo o, ancora più semplicemente, che  lo potrebbero diventare. In tutti i racconti c’è sempre un elemento di tensione, tensione che si accumula e che non sembra sciogliersi. Non è tuttavia la natura dei fatti raccontati a creare tensione. Nessuno è mai in pericolo di vita, nessuno sembra subire violenza fisica. Le storie raccontate non sembrano neanche essere degne dell’attenzione di uno scrittore. O quanto meno non erano molti gli scrittori prima di Carver a considerare degni di interesse alcuni momenti della vita umana. Non sembra infatti esserci nulla di interessante nel racconto  Cosa c’è in Alaska nella raccolta Vuoi star zitta, per favore!  È la storia di un uomo che prima di rincasare si ferma a comprare un paio di scarpe nuove, le indossa e sente il suo piede leggero e libero di muoversi. Con le sue scarpe nuove si reca poi con sua moglie a casa di alcuni vicini dove fumeranno marijuana e dove berranno. Lì gli sembrerà di vedere sua moglie abbracciare l’altro uomo, dopo un po’ la coppia rientra ritrovandosi a discutere sull’opportunità di accettare una proposta di lavoro ricevuta dalla moglie in Alaska, opportunità che, prima dell’incontro con la coppia di amici, era stata presa come la possibilità di ricominciare e sentirsi liberi. Ora, quello che colpisce in questo racconto, come in tutti i racconti di questo scrittore è lo stile assolutamente scarno ed essenziale. Questo fa intendere al lettore che le parole che si è scelto di inserire sono lì perché significano qualcosa. Per cui, le scarpe, le barrette, le arachidi, le poche battute di dialogo che i protagonisti si scambiano, hanno un altissimo valore per la comprensione del vero senso della storia. Lo stesso dicasi per il racconto Cattedrale posto come racconto finale della raccolta omonima. In questa storia c’è un uomo che racconta dell’amicizia di sua moglie con un uomo cieco, amicizia che la donna fa risalire ai tempi del suo primo e sfortunato matrimonio.  I due amici si scambiano ininterrottamente delle cassette registrate in cui si raccontano la loro vita. Il racconto si apre con l’annuncio della morte della moglie del cieco e con l’intenzione del cieco di andare a trovare la sua amica. Il protagonista non è  entusiasta per questo incontro e mostra acredine per tutto il tempo che la sua compagna e il suo amico non vedente comunicano tra di loro sentendosi estromesso dalla loro complicità. La donna dopo un po’ di addormenta e il cieco cercherà di approfondire la conoscenza con il suo ospite e lo farà in un modo esemplare. Anche in questo caso le parole scelte non sono affatto superflue per la comprensione profonda del senso del racconto. Questo uso delle parole necessarie così assolutamente equilibrato, lascia intendere il grande sforzo di revisione da parte dell’autore. una scrittura a togliere ed è proprio in quel togliere, in quel mostrare senza dire, che si amplifica il contributo del lettore. Un lettore che non può subire la narrazione ma diventa lui il primo costruttore del senso o dei differenti sensi del racconto. È il lettore, in quella totale mancanza di spiegazioni, a interrogare continuamente il testo per trovare le risposte ai propri interrogativi, alle proprie interpretazioni. È per questo che non si riesce a lasciare  i libri di Carver sullo scaffale dei libri letti. Tutti i dettagli, apparentemente banali, acquisiscono un valore letterario. Un frigorifero che si rompe, le bottiglie di spumante, le piume di un pavone e un calco di denti umani  sono tutte cose che si rivestono di possibili forti significati e che aiutano il lettore a comprendere quel momento particolare vissuto dai protagonisti delle storie. Questa scelta degli oggetti di uso comune o di dettagli aiuta Carver a fissare l’attenzione su determinati momenti della vita degli uomini. Sono dettagli o  momenti di cui è circondato anche il lettore e  in cui Carver intravede  la rivelazione di una verità, ma che, seppur colti dai protagonisti delle storie, non sembrano contribuire più di tanto alla migliore risoluzione per i personaggi. Un po’ come accade in tanti momenti della vita reale di comuni mortali. La letteratura è tale se riesce a rispecchiare l’essenza della natura umana.  Carver con i suoi racconti ha creato una serie di specchi che rifrangono all’infinito un’immagine dell’uomo da diverse angolazioni, da diversi punti di vista. Un labirinto in cui è facilissimo entrare, grazie a questa scrittura facile in apparenza, ma da cui, semplicemente, non si esce, perché, semplicemente, non si può uscire da se stessi.