//Del “Shish” e dell’apprendimento della lingua inglese in Italia

Del “Shish” e dell’apprendimento della lingua inglese in Italia

di | 2019-12-01T12:21:21+01:00 1-12-2019 12:19|Alboscuole|0 Commenti
Di Rosaria di Ruvo   Sembra che quando si ha a che fare con l’inglese, oggi come allora, la gamma di reazioni emotive della maggior parte della gente si avviti intorno ad una profonda sensazione di imbarazzo. Nel caso dei più adulti, l’inglese viene visto un po’ come il classico elefante in una stanza. Tutti ne percepiscono e vivono la presenza e l’ingombro,  tutti si adoperano per far finta che non esista; abili sempre di più a rimuoverne consciamente o inconsciamente il suo essere lì, a schivarne il contatto e il relativo catastrofico contrasto. Fuori di metafora, si potrebbe dire che la generazione di italiani adulti che ha frequentato la scuola negli anni ’50 del secolo scorso ha vissuto l’approccio all’inglese scolastico come se si trattasse di un’alternativa del latino o del greco: una specie di lingua morta ma non troppo; diciamo in coma irreversibile. Tanta grammatica, tante traduzioni da e verso l’inglese di articolate e arzigogolate costruzioni di frasi, lontanissime dal parlato comune. Grammatica a parte, restava ben poco da ricordare una volta chiuso il libro – triste libro! Poche foto, poche vignette, elenchi di parole e frasi la cui pronuncia la si poteva ricavare solo dalla trascrizione fonetica. Insomma una lingua immaginata più che praticata. Che atteggiamento ci si può aspettare da quegli alunni di un tempo (ovviamente non è assolutamente il caso di coloro che, nonostante il grigiore delle pagine del libro su cui hanno studiato, sono riusciti successivamente a padroneggiare l’elefante e farne magari anche una professione) se non un ingombrante e a tratti invalidante senso di imbarazzo e di inadeguatezza. Più l’inglese prendeva piede in molti campi della vita – guarda caso sempre quelli più utili e funzionali: il manuale dell’elettrodomestico in inglese, il testo della canzone che va tanto in radio, i primi computer che sembravano che avessero fatto risvegliare dal coma irreversibile la lingua -, più ci si arrampicava sugli specchi per trovare delle soluzioni. Solitamente la soluzione che sembrava più a portata di mano: chiedere ai figli, quelli che frequentavano la scuola negli anni ’80, ’90, di dare una mano, non era esattamente la più efficace. Un padre che si fosse rivolto ad un figlio con la legittima richiesta: “vedi un po’, cosa c’è scritto qui?” consegnando il manuale del video – registratore, scritto in tutte le lingue fuorché in italiano, probabilmente non avrebbe ricevuto nessuna risposta al di là di una faccia sgomenta. Poi magari padre e figlio, affratellati da una incolpevole e rassegnata ignoranza in materia, si sarebbero messi insieme a schiacciare tasti a caso, e l’urgenza di registrare la partita avrebbe concesso loro la scarica di adrenalina sufficiente per mettere in funzione l’oggetto misterioso. I tempi nel frattempo si evolvono e la scuola, a modo suo, anche! La scuola degli anni ‘80/’90 non era certo la scuola degli anni ‘50/’60. Erano cambiate tante cose, era cambiato anche il modo di insegnare inglese: qualche insegnante si aggirava per i corridoi con cartelloni, flashcards e un registratore per audio cassette. Buona parte dell’ora di inglese si consumava nell’attesa che il nastro scorresse e arrivasse al punto esatto del dialogo in oggetto per sentire finalmente qualcuno che parlasse in lingua. Ma evidentemente non bastava. Non è bastato! Lo sconcerto e lo sgomento è regnato sovrano fino almeno al 2005, quando finalmente nelle scuole fanno capolino, in modo più sistematico computer, lim e connessioni a internet… funzionanti a singhiozzo! Insieme a questa tecnologia ha fatto capolino anche un nuovo atteggiamento da parte degli studenti. Sembrano entusiasti i ragazzi di oggi di avere a che fare con questa lingua. Imparare inglese risulta essere ora addirittura divertente. L’insegnate può affidarsi alle mille voci del web per proporre spiegazioni; ha l’imbarazzo della scelta se volesse proporre una piattaforma dove condividere attività digitali che lei stessa ha creato sulla base dei bisogni dei suoi alunni. Anche i libri sono cambiati, quelli cartacei sono una pallida e stinta ombra delle versioni digitali, e gli amici di penna sono superati dagli alunni che si incontrano in chat su piattaforme di gemellaggio europeo. L’Europa fa viaggiare migliaia di neofiti della lingua accompagnati da uno Chaperon d’eccezione come Erasmus… Insomma sembra che si abbia tutto a disposizione per guardare l’elefante nella stanza in faccia e farci seriamente i conti. Eppure, ancora una volta, non è così. L’Italia continua ad essere uno dei paesi europei con il più basso livello di conoscenza di lingua inglese raggiunto. Peggio di noi in Europa pare sappiano fare solo i Francesi. Sarà forse per l’organizzazione oraria nelle scuole che prevede troppe poche ore di insegnamento dell’inglese sia nella scuola primaria che nella scuola secondaria di primo grado. Sarà perché l’insegnamento di una materia in lingua straniera, pratica più conosciuta come CLIL, in Italia non ha ancora preso sufficientemente piede, nonostante la buona volontà dei docenti e i diversi corsi di formazione organizzati sull’argomento. Sarà perché i docenti non di lingua che dovrebbero condurre le lezioni di Clil non si sentono a proprio agio nella competenza dello speaking, come forse, a volte, in alcuni casi o in molti casi, non si sentono a proprio agio gli stessi insegnati di lingua per le poche occasioni che hanno avuto di praticare la lingua. Sarà perché ci si ostina ancora a doppiare qualsiasi prodotto cinematografico che entri nel nostro paese. I motivi possono essere tutti validi e di svariata natura: tutti degli obiettivi impedimenti affinché un adolescente italiano possa disinvoltamente comunicare con un suo coetaneo polacco in lingua inglese, senza sentire una giusta misura di quell’antico imbarazzo che lo accomuna ai suoi nonni. A chi tocca spezzare questa spirale di imbarazzo collettivo? Gli insegnanti continueranno a fare del proprio meglio, mettendo in campo la loro creatività, le loro competenze digitali e didattiche assemblando lezioni e attività sempre più scoppiettanti e mirabolanti, ma probabilmente tutto ciò non basterà. Per tirare su un palazzo, metafora di una nuova modalità di insegnamento, in sintonia con tutte le nuove esigenze ambientali e strutturali del caso, non può essere sufficiente la buona volontà dei muratori. I muratori hanno bisogno di ascoltare i tecnici, i tecnici, a loro volta, hanno bisogno di confrontarsi tra di loro. Il Traduttore e interprete friulano F. Vaucluse stigmatizzava chi conosceva una sola lingua dicendo: “ Perdonate colui che non parla che una sola lingua: non sa ciò che fa.” Viviamo in un epoca in cui il perdono di chi sa interagire in più lingue si accompagna molto spesso ad una risatina sarcastica verso chi non sa; e se da educatori ci preoccupiamo di mandare nel mondo dei futuri cittadini in grado di capire quel mondo e di trasformarlo, sarà anche il caso di mettere nella borsa degli attrezzi che si porteranno dietro anche una lingua diversa, e insieme ad essa una visione diversa del mondo stesso.