//Partigiani e papavari: il 25 aprile

Partigiani e papavari: il 25 aprile

di | 2021-04-17T17:47:08+02:00 17-4-2021 17:47|Alboscuole|0 Commenti
Di Elena Carbutti – Classe III – sez. L   Rosso e libero, delicato e tenace, sbocciato per caso un po’ ovunque.                                                                Così ci appare il papavero, con il rosso del fuoco o del sangue che spicca tra l’oro dell’estate. Il papavero è un fiore “ribelle”: si fa strada da solo tra ghiaia e terra, disdegna le cure, le teche, i vasi. Insomma non è pensato per abbellire le stanze delicate e accoglienti ma solo la campagna brulla e selvaggia. Non è perciò un caso che sia stato scelto come il simbolo della Resistenza Partigiana, il movimento che si oppose al nazifascismo, quella guerriglia improvvisata e un po’ a fortuna, all’arrembaggio, ingaggiata contro nazisti e fascisti dai coraggiosi italiani, che ritenevano peggio vedere sfasciarsi come castelli di sabbia il futuro democratico in cui speravano che la morte.  Perchè? Perchè uomini, ma soprattutto ragazzi, donne e vecchi opposero questa strenua battaglia?  Ideali: libertà, democrazia, un futuro, tutto ciò che sapevano sarebbe stato negato loro se i nazisti avessero realizzato il loro folle progetto. La Resistenza nasceva, come il papavero, tra le macerie, i palazzi diroccati di città devastate, irrorata dal sangue dei caduti, degli oppositori, accolta dai rumori dei proiettili, dalle esplosioni delle bombe, dai tuffi senza ritorno nelle fosse, dagli ordini in tedesco, dalla paura, dalla disperazione, dall’aver perso tutto. Eppure nasceva anche dalla speranza, dal permanere di sogni di un vero futuro, un futuro senza spari e senza aerei, un futuro senza silenzio, un futuro senza giochi di morte come la guerra, le bombe.                                                       I partigiani hanno fatto ciò che dovevano, pedoni che prendono le posizioni sulla scacchiera mondiale, sfuggendo all’incerto controllo di politici timorosi, per cui esistono solo le caselle, conquistate, perdute, da conquistare, Libia, Roma, Stalingrado, non le pedine che si spezzavano su di esse.                                                                                                                                                                                          In qualsiasi brano letto, su Guerra Mondiale e Resistenza, si ripete che la guerra è come un gioco, una partita a mosca cieca, in cui l’unica differenza è che se perdi muori… un motivo in più per giocare bene, no? Eppure, c’è un errore, non è il giocatore che muore, non erano Hitler, Mussolini, l’imperatore Hiroshito, il presidente Harry Truman, che avrebbero perso la vita, no, erano gli sconosciuti raccattatati per il Paese, bambini, ragazzi, gettati nella rissa, con il fucile e il “Combatti”. Ma combatti come? E per chi? Per cosa? Pochissimi lo sapevano, il resto era guidato dal semplice istinto di sopravvivenza, contrastante con la compassione o la pietà: uccidere e sopravvivere o esitare e morire? Chi era il più veloce vinceva qualche istante, ora o anno di vita, chissà, l’altro l’ennesima cifra nei bilanci che sono seguiti alle stragi, l’ennesimo sconosciuto senza nome ricordato su qualche monumento.                                                                                                                            Per non parlare delle partite a battaglia navale, in cui nel buio si lanciavano bombe e accendeva la terra di torce umane, prendendo un po’ tutti senza distinzioni, così, giusto per non fare economia di munizioni. E capitato questo anche a Bari, vicino a noi, eh sì, non bisogna arrivare a Hisoshima o Pearl Harbor, a quindici minuti di distanza c’è il teatro dell’ennesimo eccidio, in cui nemmeno gli scampati possono affermare se sono stati più fortunati loro o i cadaveri a cui la morte ha risparmiato tale vista.                                                                                                                                                            I partigiani hanno combattuto affinchè questi orrori non si ripetessero, affinchè le generazioni future non sentissero l’odore del sangue né la morsa della guerra, non vedessero fino a che punto l’uomo può diventare il peggiore dei predatori… per gli esemplari della sua stessa specie. In particolare per i partigiani, le battaglie sono quanto di più simile a battute di caccia, con inseguimenti, braccaggi, spari, esposizione di trofei, perfino, in cui non si caccia per fame o necessità ma primordialmente per soddisfare l’ingestibile sete di sangue, che più ne sparge, più ne vuole spargere.                                                                                                                                                                                          E’ per sedare questi eccidi, che i partigiani hanno vissuto l’ennesimo calvario, nascondendosi, rincorsi come lepri dalle squadre naziste, combattendo con la forza della disperazione e della speranza insieme.                                                                                                                                                                Per questo noi li festeggiamo, per questo il 25 aprile, in occasione della Giornata della Liberazione, noi ricordiamo le loro imprese… omaggio, ringraziamento silenzioso, perchè la vita che abbiamo, in cui il fascismo lo si conosce solo dai libri, la dobbiamo anche un po’ a loro.                                                                     In occasione di questa giornata, che 75 anni fa vedeva la liberazione della città di Milano, l’organizzazione ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, si impegna in numerose iniziative lanciando anche un appello alle amministrazioni comunali, ai dirigenti scolastici, ai media, appello a cui la nostra professoressa, la professoressa di Lettere Maria De Palma, ha ritenuto impossibile non rispondere. Così, la nostra classe, la 3°L, insieme alla 2°L, si è cimentata nella realizzazione di papaveri di carta, ripercorrendo nel mentre la storia della Resistenza, in geografia, storia, ma anche arte e ovviamente musica, che ci ha presentato, su accordi di chitarra, “La guerra di Piero”… La canzone parla da sé, racconta il destino toccato a tanti ragazzi, citando gli immancabili papaveri… Desideri di pace dei singoli contro i sogni di gloria e i piani di guerra dei potenti, pietà contro ordini, vita contro morte… e almeno nella guerra sappiamo quale vince. Il passaggio più importante però è secondo me “… vedesti uomo in fondo alla valle/  che aveva il tuo stesso identico umore/ ma la divisa di un altro colore”: gli uomini si uccidevano basandosi sul colore della divisa..                                                                                                                         Ovviamente, questo tortuoso cammino non poteva saltare italiano, in cui abbiamo conosciuto autori che con quella scura ironia presentavano con una semplicità inaudita piaghe della storia, quella Storia dal volto ormai deturpato da cicatrici che solo una vera pace potrà forse risanare. Semplici, ironiche, vere, quelle parole, quelle testimonianze facevano rabbrividire più di ogni immagine, perchè non nascondevano il dolore tra le complesse pieghe di frasi arzigogolate. Frasi semplici, parole comuni, riflessioni umane, uomini, questa colpiva: il fatto che si capisse che erano uomini a parlare, non letterati, storici, filosofi, ma solo uomini che hanno conosciuto gli orrori e hanno denudato la guerra di tutte le sue strategie, le sue cause, per presentarla per come è: un gioco di morte, insensato, crudele, feroce, ma solo l’ennesimo dei nostri giochi.