//LET’S TALK Carmen Verde: “L’infelicità non ha plurale”

LET’S TALK Carmen Verde: “L’infelicità non ha plurale”

di | 2024-05-08T11:35:24+02:00 8-5-2024 11:33|Alboscuole|0 Commenti
di Gilda Frogiero   Di recente alcune classi del nostro Istituto hanno avuto l’occasione di discutere con la giovane autrice Carmen Verde del suo romanzo, “Una Minima Infelicità”, un vero e proprio viaggio che porta i lettori a esplorare il cuore dell’umanità, le complesse dinamiche delle relazioni umane e le sfide dell’esistenza quotidiana.  
  • Che cosa l’ha ispirata principalmente per la stesura di “Una Minima Infelicità”? In modo particolare, c’è stato un evento o un ricordo fondamentale allo sviluppo della trama?
 
  • Carmen Verde: Di sicuro questa storia mi è arrivata sotto forma di immagine, immagine che ho poi dovuto raccordare con un’altra immagine più profonda e intima: il rapporto con una donna piccola di statura, mia zia, che mi ha permesso, tra le altre cose, anche di conoscere i problemi che affrontano le persone “piccole”, ad esempio la necessità di farsi cucire gli abiti su misura o, ancora, l’impossibilità di trovare scarpe calzanti se non nel reparto bambino. Ho raccontato, in più occasioni, che io mi smarrivo, non dinanzi alla questione in sé, ma al confronto con me che appare in maniera evidente in alcune fotografie. Io crescevo – anche perché non sono piccola di statura – e mi commuoveva osservare come, con lo scorrere del tempo, si evidenziava sempre di più il suo essere “piccola”, anche perché lei non lo era affatto. Ad un certo punto faccio dire ad Annetta “noi piccoli siamo spettri per metà”, cioè nelle fotografie non si vede quello che in realtà di questa persona, per me così importante, nella vita c’era. Le persone non sono piccole, loro stesse spesso sono piccole per confronto.
 
  • eppure lei non è piccola…
 
  • Allora io, che non sono piccola in nessun modo, ho provato a scrivere questo romanzo forse anche per capire questo mistero. In realtà per raggiungere, se si deve raggiungere  questa piccolezza, io ho dovuto praticare l’arte dell’”elévation”, alla maniera di Baudelaire, cioè mi sono dovuta elevare io perché in realtà non c’è da raggiungere una persona “piccola” in nessun modo, le persone piccole sono molto di più di quello che di loro appare nella realtà e questo “sono spettri per metà” è una verità poetica, non è una verità scientifica. Di sicuro sono complete in loro stesse, quindi questo essere meno andava, in qualche modo, compensato. In realtà non c’era questa mancanza nemmeno nel fisico della mia protagonista, che poteva dialogare con l’infelicità, perché se ci pensate anche l’infelicità è una mancanza,  è una mancanza della felicità, e anche la malattia è una mancanza, la mancanza della salute. Vedete tutte queste cose compongono la trama, che non è solo l’intreccio, la serie delle vicende che poi accadono, ma è il modo più misterioso in cui le cose si possono collegare tra di loro e, quindi:  la mancanza con l’infelicità, l’infelicità con la malattia e addirittura la malattia con la santità perché forse nella malattia c’è il declino delle cose e perché la malattia, così come la diversità che c’è in un piccolo corpo, separa. Provate a raggiungere un malato nella sua malattia, è impossibile. C’è una grande scrittrice che è Flannery O’Connor che lo definiva un “luogo”, difatti la mia protagonista dice che “l’infelicità è un luogo” , un luogo fisico, non è un fatto solo morale e Flannery O’Connor dice  “non sono mai stata altrove che nella malattia”,  “altrove” , sembra che sia un luogo, un luogo  inaccessibile. In realtà dovendo trattare dell’infelicità, io mi muovevo davvero in un terreno complicatissimo perché riconoscere, in un periodo di infelicità, il motivo per cui si è infelici è una cosa che anche in un discorso assolutamente intimo tra noi stessi diventa difficile da raccontare e figuratevi provare a farlo in un romanzo. In questo romanzo, l’infelicità la metto già nel titolo e tendo sempre però a spronare i lettori ad andare oltre; il titolo dice “una” infelicità, non inizia con un articolo determinativo che vuole spiegare l’infelicità di tutto il mondo,  “una” , una singola infelicità che è quella di Annetta che però poi si ripete ma non è la stessa nell’infelicità di sua madre, che si ripete ma non è la stessa nell’infelicità della nonna. C’è questa difficoltà: la parola è uguale per tutti e questo però può indurre nell’errore di credere che anche nella mia storia si stia parlando della stessa cosa ma questo nella vita non è, cioè noi sappiamo bene che le nostre “minime infelicità” non sono uguali a quelle del nostro compagno. Io gioco e dico “l’infelicità non ha plurale” perché ognuna è la propria, questa è la complessità che ho cercato di rendere nel romanzo.
 
  • L’impaginazione particolare che il libro presenta ha uno specifico significato oppure è casuale?
 
  • Carmen Verde: Ha un significato. Secondo me le cose neutre in un romanzo dovrebbero essere davvero poche perché sono sempre occasioni mancate. Ha un significato intanto perché questo è un romanzo che ha “infelicità” nel titolo ma anche “minimo” nel titolo (racconta la storia di una persona piccola) allora io volevo che questa piccolezza fosse spalmata un po’ in tutto il libro. Pertanto ho ricercato uno stile tale da far stare insieme forma e contenuto, cioè ho vestito di uno stile minimo l’infelicità di Annetta, che a me pare le stia bene, e da qui viene il libro breve, i capitoli che si fanno brevi e anche le frasi che si fanno brevi; le frasi lunghe hanno questa particolarità di dover avere delle subordinate, però io faccio il tifo per le subordinate e, quindi, le ho elevate a principali, ecco l’arte dell’elevazione. C’è un rapporto diretto tra la storia che racconto e il suo contenuto e, ad un certo punto, questo ha significato ricercare l’essenziale, non miniaturizzare. Ho creduto che la bellezza in questo libro andasse ricercata nel breve, riuscendo così a realizzare questa coincidenza di forma-contenuto. Però alla genesi di questo romanzo c’è un’immagine in cui madre e figlia stanno l’una accanto all’altra in un mutismo, ecco la storia è fatta anche di silenzi tra la madre e la figlia, allora ho voluto rendere il silenzio anche su pagina con un altro alfabeto, cioè in un modo non verbale, con la pagina bianca.
 
  • Nel libro afferma che la vita non è meno della letteratura, secondo lei quanto lo studio della letteratura può condizionare le scelte di noi giovani adolescenti?
 
  • Carmen Verde: La letteratura è una fonte di conoscenza, ma è una fonte di conoscenza dell’animo di un’altra persona. Un romanzo ci consente di conoscere una persona diversa da noi e di conoscerne l’animo, e questa è una grandissima occasione, intanto perché alle volte in un personaggio riconosciamo una parte di noi ed inoltre, in generale, la letteratura può aiutarci a raccontare le cose che sono difficili da dire; può aiutare quando si affrontano dei dolori facendoci sentire, in quel momento, meno soli perché noi siamo da soli con le nostre “minime infelicità” e se le riconosciamo in un altro personaggio, magari anche in un personaggio che non esiste, ciò produce una straordinaria occasione di empatia per il personaggio ma anche per noi stessi. Questo ci può condizionare sì, però ci può essere anche utile: ci può essere utile comprendere le fragilità, le contraddizioni di una persona come Annetta, perché siamo stati fragili anche noi, lo siamo tuttora, siamo gracili, abbiamo il nostro candore, siamo stati noi bambini. Voi non siete più bambini, però siete i più vicini tra noi che siamo qui, a questa dimensione iniziale della vita. Ci sono frammenti di infanzia, frammenti di Annetta, frammenti di tutti i personaggi del libro in me e, probabilmente, in ciascuno di noi.
 
  • Qual è stata la parte che le è piaciuta di più scrivere?
 
  • Carmen Verde: Io sono in tutti i personaggi però forse ce n’è uno con cui sono più in connessione, che io considero il vero personaggio sventurato del romanzo: la madre. Quindi ciò che mi è piaciuto più scrivere è stata la storia della madre, questa donna che è così difficile, la sua infelicità è davvero la più incomprensibile, perché lei ha tutto, lei ha l’amore di sua figlia, l’amore di suo marito, eppure lei non lo riconosce e continua a cercare disperatamente un amore romantico vicino a lei. Io amo tutti i personaggi, però per lei ho più compassione, perché lei è un personaggio che non sa amare. Può capitare nella vita di non essere amati, è una questione di sfortuna, perché magari qualcuno non ci ama e invece ci amerà un’altra persona però non amare è la vera sventura, questo lo dice un grande scrittore francese che è Camus, e ciò mi ha fatto capire, proprio scrivendo di Sophie Rivier, che lei era la vera sventurata, perché appunto non sapeva amare, e quindi le ho conferito la corona dell’infelicità.
 
  • La madre a chi regala l’ultimo sorriso e perché Annetta ne è così gelosa?
 
  • Carmen Verde: A chi lo regala? Non saprei dirlo, ci vuole una folle immaginazione per capire a chi si regalano gli ultimi istanti della propria vita. Annetta ne è gelosa perché a lei quel sorriso sua madre non l’ha fatto mai, sua madre ha tenuto le labbra serrate tutta la vita, e provoca dolore vedere che soltanto nella parte finale lei riesce a schiudere le labbra, forse raggiunge in quel momento la sua essenza  spirituale più alta, la santità, però quel sorriso ha un tempo verbale già diverso, forse guarda in un punto in cui neanche i nostri verbi (passato, presente e futuro) possono arrivare.