//“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare” . Primo Levi

“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare” . Primo Levi

di | 2022-01-27T11:16:21+01:00 25-1-2022 16:56|Alboscuole|0 Commenti
di Patrizia Maria Sparagna – 5^C –
Primo Levi, autore e chimico torinese, venne catturato nel 1943, in quanto ebreo, e venne anch’egli catapultato nella triste e cruda realtà di Auschwitz.
Il romanzo “I sommersi e i salvati” è uno dei suoi scritti più importanti sull’esperienza di deportato nel lager nazista.
Tra queste pagine emerge l’agghiacciante realtà che a quel tempo milioni di persone furono costrette a vivere. Levi si impegna dunque a testimoniare ciò che, purtroppo, subì in prima persona. Decide di scrivere a nome di quei pochi individui che avevano fatto ritorno nelle loro case, ma anche a nome di tutte quelle persone che avevano perso la vita nel terribile dramma dei Lager e ormai non avrebbero più potuto testimoniare, da qui il titolo del libro “I sommersi e i salvati”.
Diversi sono gli argomenti affrontati dallo scrittore, primo fra tutti vi è lo stato d’animo dei reduci dopo la liberazione, il quale risulta essere il momento più drammatico, poiché essi si ritrovarono a dover affrontare la consapevolezza del modo in cui agirono per poter sopravvivere. Dopo la liberazione era impossibile qualsiasi ritorno alla normalità, le vittime provavano un senso di vergogna, di abbattimento generale e di senso di colpa, soffrivano perché quando furono di nuovo liberi di poter pensare, si resero conto che in condizioni di sopravvivenza avevano assunto comportamenti hobbesiani, accantonando la solidarietà umana e trasformandosi in animali, come voleva il nemico.
A tal proposito arrivavano alla conclusione che erano i peggiori a sopravvivere, gli egoisti, gli insensibili e i collaboratori.
Primo Levi mette in luce che, generalmente nel corso della storia, la violenza aveva uno scopo, come quello della guerra o della morte, in questo caso però essa non aveva nessuna finalità, i nazionalsocialisti non volevano soltanto eliminare coloro che appartenevano ad una razza inferiore, volevano vederli morire nel tormento, annullando la loro dignità facendoli vivere da animali provocando una morte non solo fisica ma soprattutto mentale.
In quelle “fabbriche della morte” tutto era pensato affinché i prigionieri venissero del tutto annientati, sfruttati ed uccisi per poi usare i loro resti per impieghi industriali.
Tutto aveva origine da un treno merci che viaggiava verso l’ignoto per giorni, all’interno del quale venivano caricate centinaia di persone per vagone, in condizioni surreali. Dal momento dell’arrivo i prigionieri venivano spogliati, tale nudità ripetuta giornalmente li faceva sentire indifesi, sul loro braccio veniva tatuato un numero per far si che non avessero nemmeno più un nome, le razioni di cibo erano misere ed erano costretti a dover mangiare come animali, senza neppure un cucchiaio. Tutti i giorni, dopo un conteggio lungo, complicato e straziante, tenuto all’aperto con ogni tipo di clima, ogni individuo doveva svolgere il lavoro che gli era stato imposto, lavoro inutile ai fini produttivi dato che la retorica nazista credeva che il lavoro nobilitasse, i nemici, dunque, non ne erano degni perciò usavano questo unicamente per scopi terroristici.
Da non sottovalutare, inoltre, è l’orribile sensazione causata dall’impossibilità di poter comunicare. Tra le mura dei campi di concentramento vi erano innumerevoli linguaggi diversi, i quali causavano incomprensioni, smarrimento e sofferenza, soprattutto per coloro che non potevano comprendere gli ordini, così piano piano si imparava a decifrare gli ordini in base ai toni di voce.
Nessuno poteva scampare a quel tragico destino, persino coloro che venivano definiti “privilegiati” non avevano grandi speranze di vita, erano semplicemente persone che lavoravano duramente, accettando un compromesso con il potere che fruttava loro un litro di zuppa in più, ma talvolta questo compromesso aveva un prezzo molto caro.
Negli ultimi capitoli, lo scrittore ci tiene a precisare che i tentativi di fuga e di ribellione c’erano stati, ma erano da folli e destinati a fallire. Fa notare poi che gli uomini erano privi di ogni forza, senza armi e in caso di fuga non avrebbero saputo nemmeno dove rifugiarsi, dato che molto spesso essi non erano al corrente del luogo in cui si trovavano.
Sin dall’inizio del mio percorso scolastico sono sempre stata interessata ad approfondire i funzionamenti dei meccanismi di detenzione e di lavoro all’interno dei campi di concentramento, ho sempre pensato di voler andare oltre le notizie apprese dai libri di storia e le nozioni tramandate dagli insegnanti e questo libro me ne ha data la possibilità, perché fornisce la testimonianza diretta di un sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti.
Credo sia importante leggere testimonianze del genere per riflettere su ciò che è accaduto non moltissimo tempo fa e impedire che tutto questo riaccada, perché ciò è improbabile, ma non impossibile. Una riflessione importante penso sia proprio quella sul lavoro: tutti noi abbiamo visto almeno una volta un’immagine del cancello di Auschwitz, il Lager più simbolico dello sterminio, con la scritta tedesca “Arbeitmacht frei” (il lavoro rende liberi), frase che racchiude in sé tutta  le menzogne dei campi di concentramento nazisti, rappresentava il beffardo messaggio di benvenuto sul luogo in cui, in realtà, il lavoro non ha mai liberato nessuno.