Sono circa le 17,30 di venerdì 26 novembre 2010 quando Yara Gambirasio esce dalla sua casa di Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, per recarsi presso il centro sportivo del suo paese. Per lei non è giorno di allenamento (pratica ginnastica ritmica), ma deve consegnare uno stereo alle insegnanti. Rimane in palestra, dove segue la lezione delle allieve più piccole, almeno fino alle 18,40 circa, dopodiché se ne perdono le tracce. Quando esce (il suo cellulare aggancia celle differenti ad indicare che è in movimento), scambia messaggi con una sua amica fino alle 18,50: si accordano per una gara in programma la domenica successiva. Poi Yara scompare nel nulla. Già alle 19 i suoi genitori si allertano e si recano al centro sportivo per cercarla: le ricerche sono senza esito; intorno alle 20,30 sono dai Carabinieri per sporgere denuncia. Le telecamere di sorveglianza del centro sportivo sono fuori uso e non risultano utili nel ricostruire i movimenti della ragazzina. Nessuno ha visto nulla e non ci sono elementi di alcun tipo che permettano di ricostruire che cosa è accaduto alla tredicenne.
Per gli inquirenti comincia un lavoro durissimo che si protrarrà per anni. Inizialmente si seguono due ipotesi: l’allontanamento volontario o il rapimento a scopo di estorsione. Entrambe le piste si rivelano ben presto inutili: Yara non aveva alcun tipo di problema in famiglia o a scuola o nella società sportiva. Con i genitori Fulvio (geometra) e Maura Panarese e i fratelli (Keba, la più grande, Natal e Gioele) i rapporti sono ottimi; inoltre, le condizioni economiche sicuramente non sono tali da consentire il pagamento di un riscatto. Alle ricerche partecipa praticamente tutto il paese; si mobilitano carabinieri, polizia, vigili del fuoco, protezione civile, volontari. Di Yara nessuna traccia. Lentamente comincia a fare capolino la possibilità che la ragazzina sia stata vittima di un’aggressione a scopo sessuale.
Il corpo di Yara viene ritrovato il 26 febbraio 2011, esattamente tre mesi dopo la scomparsa, da un aeromodellista in un campo a Chignolo d’Isola, distante circa 10 chilometri da Brembate. La perizia medico-legale sul corpo afferma che l’aggressione e il decesso sono avvenuti in quel luogo. Yara è completamente vestita con gli stessi abiti del giorno della scomparsa, le scarpe slacciate e un lembo degli slip reciso e lasciato penzolante fuori dai leggings. Sul corpo non vi sono segni di violenza carnale. Il 28 maggio il funerale nel centro sportivo dove Yara si allenava, seguito da migliaia di persone e celebrato dal vescovo di Bergamo Francesco Beschi.
Sugli slip della ragazzina viene rinvenuto il Dna di uno sconosciuto, subito definito “Ignoto 1” : per la Procura che indaga (titolare dell’indagine è la pm Letizia Ruggeri), per gli inquirenti e per i mass media si tratta della “firma” dell’assassino di Yara. Comincia una gigantesca caccia all’uomo che coinvolge l’intera zona. Vengono prelevati e analizzati i profili genetici di migliaia di persone; in particolare, colpisce la singolare somiglianza tra il DNA di “Ignoto 1” e quello di un giovane frequentatore di una discoteca vicina al luogo del ritrovamento del corpo. Da tale dato, tramite l’esame di vari soggetti della cerchia familiare, si accerta che il profilo di quel ramo genetico che risulta più strettamente correlato a quello rinvenuto sulla vittima appartiene a Giuseppe Guerinoni, autista di autobus di Gorno deceduto nel 1999 e identificato quindi come il padre di “Ignoto 1” e di cui è sconosciuta l’esistenza di un figlio naturale. Con l’aiuto della confidenza di un collega di Guerinoni riguardante una relazione extraconiugale dell’autista risalente a molti anni addietro, si arriva ad Ester Arzuffi, la donna il cui DNA nucleare corrisponde alla metà materna del profilo di “Ignoto 1”.
La donna nega decisamente (e lo fa tuttora) di aver intrattenuto rapporti di qualsiasi tipo con Guerinoni, pur ammettendo di averlo conosciuto e di averlo frequentato per qualche tempo in quanto guidava il mezzo con cui raggiungeva il posto di lavoro. Successivamente chiarirà di aver fatto ricorso alla inseminazione artificiale in due circostanze, dopo le quali ebbe dal ginecologo la rassicurazione che sarebbe diventata madre. Nascono quindi dapprima i gemelli Massimo e Laura, figli di Giuseppe Guerinoni e Ester Arzuffi, e successivamente Fabio (stessa madre, ma padre differente): tutti hanno il cognome Bossetti, cioè quello del marito di Ester. Massimo è l’unico che risiede in zona: il Dna gli viene prelevato con un finto controllo stradale durante il quale viene sottoposto alla prova dell’etilometro. La conferma arriva puntuale: il profilo genetico di “Ignoto 1” coincide perfettamente con quello del muratore quarantaquattrenne di Mapello.
Massimo Giuseppe Bossetti viene arrestato il 16 giugno 2014, quasi 4 anni dopo la scomparsa di Yara. Il 26 febbraio 2015 la Procura della Repubblica di Bergamo chiude ufficialmente le indagini e lo indica come unico imputato. Il processo comincia il 3 luglio 2015; un anno dopo, la Corte d’assise di Bergamo lo condanna all’ergastolo per l’omicidio della tredicenne di Brembate, riconoscendo inoltre l’aggravante della crudeltà e revocandogli la responsabilità genitoriale sui suoi tre figli. Il processo d’appello incomincia il 30 giugno 2017 e il 17 luglio successivo la Corte d’appello di Brescia conferma la sentenza del primo grado di giudizio. Il 12 ottobre 2018 la Corte suprema di Cassazione conferma definitivamente la pena. Bossetti si dichiarò subito innocente e continua a farlo ancora oggi, sostenuto dai suoi avvocati che continuano a battersi per vedere riconosciuta la non colpevolezza del loro assistito.
Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio è una docu-serie di Netlix e racconta le indagini che portarono all’arresto di Massimo Bossetti, le verità emerse riguardo ad alcuni legami familiari della famiglia Bossetti, le contraddizioni e i dettagli più controversi sull’investigazione. Attraverso testimonianze, ricostruzioni, interviste esclusive (compresa quella allo stesso Bossetti e alla moglie Marita) e materiali inediti si esplorano gli eventi legati al caso, le accuse di depistaggio e i sospetti sui metodi investigativi. Si tratta di una produzione Quarantadue sviluppata e diretta da Gianluca Neri, prodotta da Gianluca Neri, Massimo Rocchi e Marco Tosi; scritta da Carlo G. Gabardini, Gianluca Neri e Elena Grillone in collaborazione con Alessandro Casati, Cristina Gobbetti, Camilla Paternò. Un lavoro sicuramente accurato, ma che ha una pecca di fondo: dà molto (troppo) spazio alle argomentazioni difensive e assai meno alle tesi dell’accusa, peraltro avallate e confermate in tutti i gradi di giudizio.
Dopo aver visto tutti e cinque gli episodi, la sensazione forte che si ricava è di trovarsi di fronte ad un clamoroso errore giudiziario che tiene in carcere per tutta la vita una persona che con quell’orrendo crimine non ha nulla a che fare. La difesa contesta sin dal primo processo la mancanza di DNA mitocondriale di Bossetti nella traccia genetica rinvenuta ed esaminata, ma i genetisti dell’accusa confermano la validità del test anche se relativo al solo DNA nucleare. Bossetti dal canto suo sostiene il trasferimento accidentale di DNA da alcuni attrezzi che gli sarebbero stati rubati, sporchi del suo sangue a causa di epistassi, di cui soffrirebbe regolarmente. In tutti i gradi di giudizio, i legali del muratore hanno sempre sottolineato che i campioni di DNA furono analizzati senza garanzie per la difesa e che i periti difensivi hanno potuto lavorare solo ed esclusivamente su documenti cartacei, nei quali hanno evidenziato quelle che secondo loro sono numerose anomalie. In particolare, l’avvocato Salvagni critica duramente la pm Letizia Ruggeri per la scelta di spostare 54 campioni di Dna poiché vennero conservati a temperatura ambiente anziché a meno 80 gradi e ciò ne provocò la distruzione. Questo errore, secondo la difesa, avrebbe compromesso la possibilità di nuove analisi. La dottoressa Ruggeri per questa ragione è stata indagata per frode processuale e depistaggio, ma la Procura della Repubblica di Venezia (che indaga sui magistrati di Bergamo) ha chiesto l’archiviazione: il Gip si è riservato la decisione.
Di contro, a parte la prova principe del DNA ci sono altri elementi a carico di Bossetti: le telecamere di sorveglianza hanno rilevato numerosi passaggi del suo camion nella zona della palestra di Yara; il suo cellulare la sera del fattaccio aggancia diverse celle compatibili con la sua presenza in quell’area; non ha un alibi, anzi ne fornisce uno falso, salvo poi ritrattare; quando i carabinieri arrivano nel cantiere edile dove lavora, prova a scappare; l’analisi del suo pc rileva diverse ricerche a carattere pedo-pornografico, anche se la moglie Marita se ne assume la responsabilità, ma alcune erano state fatte in orari in cui lui era abitualmente a casa. Spesso dice bugie come, ad esempio, quando nega di aver frequentato un centro estetico per farsi docce solari, ma poi di fronte all’evidenza è costretto ad ammetterlo, giustificando la menzogna col fatto di non voler confessare alla moglie che spendeva soldi per faccende non propriamente necessarie. Insomma il quadro indiziario su Bossetti appare piuttosto articolato e solido, tanto da giustificare la condanna in primo grado e le successive conferme fino alla Cassazione.
La docu-serie offre invece molto spazio a Salvagni e anche ad alcuni giornalisti che propendono per la tesi innocentista, offrendo una visione distorta e non del tutto aderente alla realtà. Peccato, perché il lavoro di documentazione è serio e accurato e soprattutto perché Yara e la sua famiglia non meritano che una vicenda ormai definita continui a rivangare dolore e angoscia.
Buona domenica.
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