NAPOLI – “Le ore del mattino sono occupate dalla scuola: nelle altre cosa facciamo?” si chiedeva Agostino nelle Confessioni: perché non impiegarle nell’opera di cercare l’ideale per cui dare la vita, anziché buttarle via riempiendo il vuoto con l’inutile? Si pensa, da troppe parti e da troppo tempo, che la scuola serva unicamente a inserirsi nel mondo. Come fosse ormai diventato meccanico. Anche in una forma di consiglio da dare ad un alunno, come si fa per un figlio, mai accade che uno dica: “Completa il tuo percorso, appassionati, fa’ ciò che permette di realizzarti”.
Certo, c’è da fare i conti con la realtà che vuole che tu lavori, che porti i soldi a casa. La scuola – chi scrive ne è fermamente convinto – serve, invece, a giudicare il mondo: a rinverdire, forte dell’incontro con la genialità umana, il proprio cuore, quell’arma che vale più di ogni altra cosa. La scuola ha questo di importante: essere un luogo che sollecita, che apre gli occhi e sostiene il desiderio di conquistare (sapere). Appunto, giudicare. Permette non solo al discente, non solo al docente ma anche ad una intera realtà familiare di essere attenti al contesto sociale ancor più del semplice passare accanto. Permette di vagliare un mondo che porta inesorabilmente alla solitudine accettandola bonariamente e inconsciamente come forma per evitare un contrasto, un confronto.
Del resto la tentazione forte è di non immischiarsi, di non sporcarsi le mani nelle vicende della vita. Si demanda un lavoro, un compito, un sacrificio; troppo spesso perché le ragioni vengono meno. E, paradossalmente, nei confronti dei figli così spesso con gli alunni, invece, si tende a proteggerli, ci si sostituisce, si cerca di attutire l’impatto con il reale favorendo così un “ovattamento” della vita stessa. Ma la scuola cosa c’entra in tutto questo? La scuola aiuta, sostiene, tiene tentativamente vivo un fuoco, uno sguardo affinché si possa uscire dallo stordimento collettivo, dal tempo che si sbrodola, dal borghesismo molliccio, dall’usa e getta dei rapporti. Giustificare qualsiasi azione dando la colpa alla stanchezza, quasi che il desiderio di vivere, di sapere ad un certo punto scada.
“Mi dispiace signore, è scaduto il tempo per imparare”. Eh sì, troppo stress fa male! Ma davvero la scuola può avallare una visione della vita così ridotta? È questa la percezione di chi si vive nella scuola? Un peso inutile, una fatica in cui abbiamo già dato e ora non vogliamo più rogne? Può mai concepirsi una tale frammentarietà in un uomo, in un ragazzo? Noi educatori, insegnanti, genitori abbiamo una strabenedetta responsabilità: quella di accompagnare i nostri alunni, i nostri figli verso mete, a noi e a loro, sconosciute ma sicuramente positive se vissute con coscienza di uno scopo, se affrontate con dovizia di significato cioè cariche di attesa, di tensione.
È necessario “accendere fuochi” in ogni ora di lezione combattendo, lottando contro mentalità “conservative” fatta da genitori (non me ne vogliano) che si sostituiscono ai figli, che proiettano i loro disegni iperprotettivi sui ragazzi, che tentano di evitare ogni impaccio, ogni ostacolo dimenticando il destino che inesorabilmente ognuno di loro ha. Dobbiamo accorgerci che la vita è una, senza salti fra banchi, fantasie e progetti, per togliere il costume della frammentarietà, perché al posto di scialbe quotidianità da relax abbiamo da regalare una più intensa fame del “cominciare sempre”.
Solo l’ardente desiderio di abbracciare la vita può dare il giusto ristoro. Solo la ricerca, il desiderio di una seppur accennata umanità nuova, per chi ha l’occhio e il cuore sinceri per riconoscerla anche in un ambiente spesso arido come la scuola, può rinverdire una natura arida e amara.
Innocenzo Calzone
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