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“Tra le righe”, viaggio nel complesso mondo delle traduzioni

di | 2025-04-03T18:35:57+02:00 6-4-2025 0:25|Cultura, Sezione 6|0 Commenti

PALERMO – “Questo libro nasce dal mio desiderio di condividere la mia passione e di raccontare la mia esperienza… Con quasi novanta traduzioni al mio attivo, neppure una scintilla di quella passione iniziale si è spenta”: Silvia Pareschi presenta così il suo libro Fra le righe. Il piacere di tradurre (Laterza, Bari-Roma, 2024), viaggio intrigante nell’universo multiforme e complesso delle traduzioni letterarie.

Silvia Pareschi

Scopriamo innanzitutto che l’autrice, dopo una laurea in russo (convinta, ai tempi della perestrojka, che “il russo fosse la lingua del futuro”) intraprende il mestiere di traduttrice quasi per caso, dopo l’incontro felice con Anna Nadotti che, in un master di scrittura creativa, teneva un seminario dal titolo «Il traduttore come giardiniere tenace». Sarebbe poi seguito l’incontro altrettanto fortunato con Marisa Caramella, traduttrice ed editor Einaudi, che le affida la traduzione di un capolavoro: The Corrections di Jonathan Franzen.

Così Silvia, che aveva imparato l’inglese quasi senza rendersene conto “grazie ad alcuni viaggi giovanili molto scapestrati e a tante letture disordinate ma appassionate”, oltre a tradurre tutte le opere di Jonathan Franzen, negli ultimi venticinque anni è diventata la ‘voce’ italiana di buona parte della letteratura angloamericana contemporanea: Don DeLillo, Junot Diaz, Sylvia Plath, Cormac McCarthy, Colson Whitehead, per citare solo alcuni degli scrittori tradotti.

Ernest Hemingway

Per il suo lavoro, l’autrice ha fatto tesoro delle raccomandazioni di Italo Calvino, in particolare della terza delle sue Lezioni americane, dove l’Esattezza viene definita come «un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione»; infatti “una descrizione narrativa, prima di poter essere tradotta da una lingua a un’altra, deve essere convertita in immagini nella mente della traduttrice”. (A proposito dell’utilizzo di ‘traduttrice’ anziché ‘traduttore’, poiché in Italia l’85% di chi fa traduzioni è donna, l’autrice si permette “una piccola erosione all’uso prescritto della lingua” e usa nel suo libro il femminile sovraesteso).

Silvia Pareschi evidenzia poi che “la traduzione non è una scienza esatta: non esiste un’unica traduzione ‘giusta’ di un testo, ma tante traduzioni-interpretazioni quanti sono i traduttori che su quel testo si sono cimentati”.  Inoltre “una dote fondamentale di chi traduce è l’umiltà (…) perché traducendo bisogna essere capaci di accantonare il proprio ego e mettere la propria voce al servizio di quella dell’autore del testo”.

“Il vecchio e il mare” tradotto da Silvia Pareschi

Quali sono dunque i segreti di una buona traduzione? Non la mancanza di errori, perché qualche errore scappa sempre: “I parametri per giudicare la qualità di una traduzione sono altri: l’aderenza al registro e al tono dell’originale, la fluidità dello stile, l’assenza di calchi”.

Tradurre la lettera o tradurre il senso? Non c’è una risposta univoca: “Nei testi in cui il rispetto dello stile dell’autore è un elemento fondamentale si cercherà il più possibile di avvicinare il lettore allo scrittore, mentre per i testi in cui la funzione informativa prevale su quella estetica… la traduttrice sarà autorizzata a dare precedenza al senso rispetto alla lettera”.

L’autrice riporta quindi l’opinione del critico e traduttore Fulvio Ferrari, secondo il quale una buona traduzione sarà sempre «un compromesso ‘alto’, che consisterà nella creazione di un nuovo testo letterario, dipendente dal testo di partenza, ma di qualità non inferiore, capace di ‘importare’ efficacemente nella cultura di arrivo l’innovazione letteraria prodotta nella cultura di partenza».

Ma come si traduce un testo intriso di parti dialettali? Si elimina il congiuntivo per dare un sapore più colloquiale al testo? Si costruisce un nuovo dialetto a tavolino? Come la mettiamo poi con le lishes, parole macedonia, che descrivono gli ibridi nati dalla mescolanza dell’inglese con un’altra lingua?

Anna Nadotti

Silvia Pareschi ci fa notare che esiste ormai un lish per ogni idioma del pianeta: il chinglish (cinese + inglese), lo hinglish (hindi + inglese), lo spanglish (spagnolo + inglese) e persino il siculish (la sicilianizzazione maccheronica dell’inglese: di questa ultima variante la scrivente, grazie a certi racconti di Leonardo Sciascia e ai suoi parenti emigrati a Broccolino, sa davvero qualcosa…).

E ci fa prendere dimestichezza anche con il co segreetide-switching (passaggio da una lingua all’altra all’interno di uno stesso discorso) e con il code-mixing (passaggio da una lingua a un’altra all’interno della stessa parola: schedulare, selfista, instagrammabile…)

L’autrice afferma poi che lo straordinario amalgama linguistico utilizzato da Junot Diaz nel suo capolavoro La breve favolosa vita di Oscar Wao (vincitore del premio Pulitzer nel 2008)  “assume una valenza non solo stilistica, ma anche storico politica”. Perché, come lei stessa sottolinea in una nota: “La definizione di ‘lingua standard’ ossia di una lingua teoricamente neutra, usata come modello e punto di riferimento, è molto controversa, poiché da essa discende una concezione diffusa che vede lo standard come la varietà più prestigiosa, intrinsecamente migliore rispetto a quelli che, per motivi storico-politici, vengono classificati come dialetti. Secondo un detto attribuito allo studioso di yiddish Max Weinreich, «una lingua è un dialetto con un esercito e una marina».

Marisa Caramella

Infine, perché ritradurre i classici? Perché una traduzione invecchia?  “Per certi versi una nuova traduzione assomiglia a un restauro: ripulisce il testo dalle incrostazioni degli anni, ne ripristina i colori originali, lo rende di nuovo contemporaneo”.

Ecco perché l’autrice si è cimentata con la ritraduzione di un celeberrimo classico come Il vecchio e il mare di Hemingway:Il fatto è che dalla traduzione di Fernanda Pivano, uscita nel 1952 e dunque contemporanea all’originale, non è cambiata solo la lingua italiana, che come tutte le lingue è un organismo vivente in continua evoluzione, ma è cambiato soprattutto il modo di tradurre, è cambiata l’idea stessa di traduzione”. “La sfida consiste dunque nel far comprendere che avere diverse traduzioni di uno stesso libro non equivale a un tradimento, a una violazione della sacralità del testo, bensì a un arricchimento”.

Oltre a esporre alcune chicche riguardanti la ritraduzione del capolavoro di Ernest Hemingway, viene presentato il ‘principio dell’iceberg’, postulato da Hemingway stesso: lasciamo ai lettori il piacere di scoprirlo…

“Le correzioni” di Jonathan Franzen

Le ultime pagine sono dedicate al controverso rapporto tra IA e traduzione: “Nell’ambiente della traduzione i recenti sviluppi dell’IA applicata all’elaborazione del linguaggio naturale sono seguiti con un misto di interesse e inquietudine – dichiara apertamente Silvia Pareschi -. C’è chi vede tutto nero e pensa che sia ora di cercarsi un altro lavoro in un settore non minacciato dall’automazione, chi cerca un modo per convivere con i nuovi strumenti, chi continua a ritenere che un lavoro creativo come quello della traduzione letteraria non possa venire svolto da una macchina. Io appartengo a quest’ultima categoria”.

Che conclude il suo saggio con queste parole appassionate e vibranti, condivise in pieno dalla scrivente: “Ciò che spero non venga mai intaccato è la consapevolezza dell’insanabile differenza tra sistemi viventi e macchine: chi equipara la cognizione umana a quella di una IA dimentica che noi non siamo solo i nostri neuroni. (…) Le nostre risposte agli stimoli sono informate non solo da ciò che conosciamo a livello razionale, ma anche dall’esperienza di vita, dalle dinamiche sociali e dai voli di fantasia. Essere umani significa provare dolore, gioia, sorpresa, malinconia, rabbia: emozioni che danno forma a ciò che pensiamo e diciamo in modi che anche la macchina meglio addestrata non sarà mai in grado di replicare. Se perdiamo la capacità di distinguere tra arte fatta dagli umani e arte fatta dalle macchine, vorrà dire che non saremo più in grado di connetterci all’essenza dell’arte, che è poi l’essenza dell’umanità”.

Maria D’Asaro

 

Già docente e psicopedagogista, dal 2020 giornalista pubblicista. Cura il blog: Mari da solcare
https://maridasolcare.blogspot.com. Ha scritto il libro ‘Una sedia nell’aldilà’ (Diogene Multimedia, Bologna, 2023)

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