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Squid game, il “gioco” per sopravvivere ai debiti

di | 2021-12-09T19:22:38+01:00 12-12-2021 6:25|Attualità, Sezione 6|0 Commenti

NUORO – Squid Game letteralmente significa “gioco del calamaro”. È una serie televisiva sudcoreana, scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk e distribuita in tutto il mondo sulla piattaforma di streaming Netflix a partire dal 17 settembre scorso. La serie, costituita da nove episodi, racconta la storia di un gruppo di persone in difficoltà economiche che rischiano la vita in un gioco di sopravvivenza che ha in palio 45,6 miliardi di won, pari a circa 33 milioni di euro. L’idea nasce sulla base delle personali difficoltà giovanili di Hwang e fa riflettere sulle disparità socio-economiche vigenti nella Corea del Sud. La sceneggiatura fu scritta per la prima volta nel 2008 e l’autore fece fatica a trovare produttori disposti a finanziare l’opera, finché Netflix si mostrò interessata acquisendone i diritti in modo da espandere offerte di intrattenimento provenienti da Paesi esteri.

Il protagonista, Seong Gi-hun, è un uomo di 47 anni, sommerso dai debiti, con un matrimonio fallito alle spalle, una figlia di cui ha perso la custodia e una madre gravemente malata. A tutto ciò si aggiunge la ciliegina sulla torta: è inseguito dagli usurai. Una sera, alla fermata della metro, viene bloccato da un uomo e invitato a partecipare a un gioco per vincere una grossa somma di denaro. Egli accetta l’offerta, viene prelevato da un’auto, drogato, e così si ritrova in un luogo sconosciuto insieme ad altre 455 persone con debiti simili ai suoi. I giocatori sono continuamente tenuti sotto controllo da un sistema di telecamere e da alcune guardie vestite di rosso controllate da un Front Man. I giocatori scoprono ben presto che chi perde viene ucciso brutalmente e ogni morte aggiunge una cospicua cifra al montepremi finale.

Seong Gi-hun fa squadra con altri giocatori, incluso il suo amico d’infanzia Cho Sang-woo, per sopravvivere alle sfide fisiche e psicologiche sottoposte dai giochi, ma ben presto si accorge che per uscire vivo dal mortale e violento gioco deve fare di tutto, anche tradire l’amico, il conoscente, il fratello e, ad un certo punto, giocare da solo per sé stesso. Seong Gi-hun è il cuore di questa drammatica storia, capace di portare un po’ di umorismo e di leggerezza anche nelle situazioni più disperate, dando allo spettatore qualcuno per cui tifare. Ma non è l’unico personaggio al quale ci si affeziona nel corso della vicenda. Il gioco descrive una spirale di violenza, non c’è nulla di innocente in esso che non è altro che una sfida mortale in cui siamo chiamati ad essere spettatori. I suoi protagonisti non sono presentati come eroi o macchine da guerra ma come persone vere, autentiche, capaci di compiere scelte spietate per necessità ma anche atti di puro altruismo, sebbene troppo pochi per poter sopravvivere.

La serie coreana si muove all’interno di un territorio già ampiamente esplorato, ossia quello dei giochi all’ultimo sangue. Lo fa, però, in maniera nuova, rimanendo ancorata alla realtà e presentando in modo approfondito i personaggi attraverso dei background. Questa scelta si rivela propedeutica per gli obiettivi del gioco proposto, e diventa più chiara man mano che si procede con la visione. I giochi di Squid Game nascono come giochi per bambini, da svolgersi in un ambiente colorato, divertente e d’effetto. Ma nella serie arriva la morte che crea nello spettatore terrore e sgomento che comunque tiene incollati allo schermo diventando una sorta di pura attrazione.

Eppure Squid Game ha una sua morale, seppur intrisa di sangue: vuole portare agli estremi le distorsioni della società capitalista coreana, caratterizzata da una forte disuguaglianza sociale ed economica. Forse per questo, in Corea, dove la serie è nata, ha trovato da parte del governo tanta ostilità. Questo può essere spiegato con i fatti di cronaca delle ultime settimane. Uno studente liceale nordcoreano, dopo un viaggio in Cina, ha portato con sé e contrabbandato in patria una copia digitale di Squid game nascosta in una chiavetta USB. Dopo aver diffuso il video tra gli amici e averne venduto anche alcune copie, è stato individuato e arrestato dalla polizia segreta. La 109 Sangum, la task force nordcoreana specializzata nello scovare il contrabbando di video illegali, ha ricevuto una soffiata anonima ed ha colto in flagrante i ragazzi che stavano visionando gli episodi. Per il reato commesso il ragazzo è stato condannato a morte.

La notizia è stata riportata da diversi media internazionali, tra i quali l’americana Radio Free Asia (RFA) che hanno informato anche di un altro studente liceale che ha acquistato una copia del filmato, e per questo è stato condannato all’ergastolo, mentre altri 6 studenti che hanno solo guardato il video sono stati condannati a cinque anni di lavori forzati. Colpiti dal provvedimento anche un insegnante e alcuni dirigenti scolastici, che sarebbero stati licenziati e che ora rischiano il trasferimento nelle miniere. La condanna lascia basito il mondo occidentale, ma rientra perfettamente nelle nuove norme introdotte dal regime di Kim Jong-un. In Corea del Nord, infatti, dall’inizio del 2021, è entrata in vigore una legge che permette “l’eliminazione dei pensieri e della cultura reazionari”, e che prevede fino alla pena di morte se anche solo semplicemente si visiona, ma anche si detiene o si distribuiscono dei prodotti media come film, serie tv, ma anche giornali e musica, provenienti dai paesi cosiddetti capitalisti, ed in particolare dalla Corea del Sud e dagli Stati Uniti.

Il dittatore nordcoreano Kim Jong Un

I giovani nordcoreani provano ad evitare simili divieti, ad esempio con l’uso di pendrive criptati che cancellano i prodotti dopo la visione, evitando quindi la trasmissione internet potenzialmente monitorata. Nonostante ciò, la repressione è feroce e, in casi come questi, porta alle estreme conseguenze. In Corea del Nord la libertà non esiste: il leader Kim Jong Un, nel giugno del 2021, ha scritto una lettera sui media statali chiedendo alla Lega della gioventù del paese di reprimere “comportamenti sgradevoli, individualisti e antisocialisti” tra i giovani. Kim vorrebbe fermare l’eventuale diffusione dello slang straniero, le acconciature e i vestiti alla moda all’estero, come i jeans, che ha descritto come “veleni pericolosi”. Il Daily NK, una pubblicazione online di Seoul con fonti in Corea del Nord, ha riferito che tre adolescenti sono stati mandati in un campo di rieducazione per essersi tagliati i capelli come gli idoli del K-pop e aver orlato i pantaloni sopra le caviglie. Eppure i media ufficiali dicono che non esistono problemi di diritti umani nello Stato comunista dove tutti conducono “una vita tra le più dignitose e felici”.

Ma in un paese così felice vige ancora oggi la brutale pena di morte per 5 reati: complotti contro la sovranità dello Stato, terrorismo, alto tradimento contro la patria da parte di cittadini, alto tradimento nei confronti della popolazione, omicidio. La realtà è tuttavia molto diversa, perché la pena di morte è praticata sistematicamente e su vasta scala in moltissimi casi. Assai frequenti sono le esecuzioni pubbliche per tentata fuga all’estero in Cina o Corea del Sud, numerose sono le esecuzioni pubbliche nei 7 campi per i prigionieri politici e nei campi di rieducazione stimati tra i 15 e i 20, e chi non sopporta la vista dell’esecuzione, spesso attuata tramite fucilazione, e protesta viene ucciso. Chi tenta di fuggire o viola le regole del campo, per esempio ruba del cibo, è punito con la morte. Inoltre, spesso, i detenuti sono costretti a lavori impossibili in modo da poterli punire e diminuire la loro razione di cibo, condannandoli alla morte per fame. Chi viene rilasciato, è condannato a morte se rivela i segreti del campo.

Riguardo ai campi di rieducazione, invece, le informazioni sono meno precise sebbene le esecuzioni siano centinaia all’anno, a causa della loro sistematica frequenza e soprattutto dei futili motivi per cui sono comminate. Nel campo di Kaechon una bambina di 6 anni è stata uccisa per aver rubato 5 chicchi di grano a riprova, insieme a numerosi altri casi resi noti dai pochi testimoni, che siano normali anche le esecuzioni di minori. La cosa assurda è che, addirittura, la pena di morte o la condanna ai lavori forzati sono state minacciate a chi avesse osato utilizzare in pubblico il cellulare nel periodo di lutto successivo alla morte del dittatore Kim Jong-il, avvenuta il 17 dicembre 2011, con l’intento di evitare il diffondersi all’estero di notizie destabilizzanti, in un momento delicato per il regime. Tale periodo aveva una durata di 100 giorni a decorrere dal 17 dicembre, ed in questo lasso di tempo l’uso del cellulare è stato considerato un crimine di guerra.

La Corea del nord è quindi un paese libero e felice come il governo afferma? Dai dati purtroppo si evince che non è così. Molti dei diritti umani e delle libertà civili sono inesistenti, gravemente violati e di fatto non rispettati dallo Stato, sebbene la Costituzione formalmente li garantisca. Non c’è libertà di parola, i media sono strettamente controllati e lasciare il paese risulta praticamente impossibile. Secondo la sua Costituzione, la Corea del Nord è uno Stato socialista con un sistema economico pianificato, di fatto è una dittatura totalitaria di stampo stalinista, con un culto della personalità intorno alla dinastia Kim. Può sperare in un futuro migliore il popolo coreano? E’ decisamente complicato…

Virginia Mariane

Amante del buon cibo, di un libro, della storia, dell’archeologia, dei viaggi e della musica

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