RIETI – “Indovinami, Indovino,/tu che leggi nel destino:/l’anno nuovo come sarà?/Bello, brutto o metà e metà? ”/“Trovo stampato nei miei libroni/che avrà di certo quattro stagioni,/dodici mesi, ciascuno al suo posto,/un Carnevale e un Ferragosto/e il giorno dopo del lunedì/sarà sempre un martedì./Di più per ora scritto non trovo/nel destino dell’anno nuovo:/per il resto anche quest’anno/sarà come gli uomini lo faranno!”. Gianni Rodari diceva ai bambini, per parlare anche ai grandi, che è l’uomo il protagonista della vita, quella propria e quella degli altri. Allora iniziamo questo nuovo anno ricordando uomini che hanno fatto di un anno, di un giorno, di un periodo, qualcosa di migliore, come un telegiornale delle buone notizie, nell’anno del Giubileo ispirato proprio alla Speranza.

Pierantonio Costa
Dopo la lista di Oskar Schindler, c’è anche “La lista del console” quella di Pierantonio Costa (il libro del 2004, scritto da Pierantonio Costa e Luciano Scalettari, è pubblicato da Edizioni Nord-Sud Paoline, Milano). “La lista di Schindler”, libro di Thomas Keneally sulla Shoa, diventò un film con la regia di Spielberg, gli attori Liam Neeson, Ben Kingsley e Ralph Fiennes (12 nomination agli Oscar, 7 statuette, tra cui quelle per il miglior film e la miglior regia, considerato uno dei migliori film della storia del cinema). Anche Costa, come Schindler, era un imprenditore, oltre che console e anche la sua storia varrebbe un film, come pure quella di Giorgio Perlasca. Spielberg utilizzò parte degli incassi per creare la Survivors of the Shoah Visual History Foundation, organizzazione no-profit per la collezione audio-video delle testimonianze di circa cinquantaduemila sopravvissuti.
Pierantonio Costa, penultimo di sette fratelli, nacque a Mestre il 7 maggio 1939 (morì in Germania il 1 gennaio 2021), studiò a Vicenza e a Verona e a quindici anni raggiunse il padre emigrato nello Zaire. A Bukavu, nel 1960, fece la prima esperienza di guerra africana e, con alcuni suoi fratelli, si prodigò per traghettare sull’altra sponda del lago Kivu gruppi di profughi congolesi. Dopo lo scoppio della rivoluzione mulelista, capeggiata da Pierre Mulele (1964), si trasferisce nel Rwanda, che aveva appena ottenuto l’indipendenza. Nel maggio 1965 il primo permesso permanente di residenza in Rwanda e da allora, fino al 1994 risiede a Kigali, dove sposa Marianne, una cittadina svizzera, da cui ha avuto tre figli: Olivier, Caroline e Matteo. Imprenditore di successo, allo scoppio del genocidio ha in attività quattro imprese. Per quindici anni, dal 1988 al 2003, l’Italia gli affida la rappresentanza diplomatica.
Nei tre mesi del genocidio, dal 6 aprile al 21 luglio 1994, Costa porta in salvo gli italiani e gli occidentali, poi si stabilisce in Burundi, a casa del fratello, e da lì comincia una serie di viaggi attraverso il Rwanda per mettere in salvo il maggior numero di persone possibile, utilizzando i privilegi di cui gode, la rappresentanza diplomatica, la rete di conoscenze e il suo denaro per ottenere visti di uscita dal paese per tutti coloro che gli chiedono aiuto. Salvò duemila persone. Per essere facilmente riconosciuto da tutti, vestiva allo stesso modo: pantaloni scuri, camicia azzurra, giacca grigia. Nelle tasche banconote da 5000 franchi rwandesi (circa 20 euro), da 1000, da 500 e da 100 franchi, per essere pronto a estrarre la cifra giusta, senza dover contare i soldi: la mancia dev’essere data nella misura giusta “se dai troppo ti ammazzano per derubarti, se dai troppo poco non passi” diceva. Nella borsa fogli con la carta intestata del consolato d’Italia e sul fuoristrada le bandiere italiane.
Evitava di viaggiare con il buio e di dormire in Rwanda. Aiutato dal figlio Olivier, agisce di concerto con rappresentanti della Croce Rossa e di diverse Ong, impegnando oltre 3 milioni di dollari, salvando quasi 2000 persone, tra cui 375 bambini di un campo di raccolta della Croce Rossa a Butare. Verrà insignito della medaglia d’oro al valore civile per gli italiani portati in salvo e analoga onorificenza riceverà dal Belgio. Nei cento giorni del genocidio rwandese, Costa decise di rischiare la sua vita, impegnare i suoi beni. “In mezzo a tanta violenza e sofferenza, qualcosa avevo fatto. Questo, solo questo, niente di più”. La sua storia è stata raccolta dal giornalista Luciano Scalettari, coautore del libro “E’ un Giusto, nel senso che danno a questo termine gli ebrei”, ma Costa dice semplicemente di aver risposto alla propria coscienza “Quello che va fatto lo si deve fare”. Non è questo forse l’antidoto contro la “banalità del male”, l’indifferenza, condannata da Brecht, Anna Arendt, Natalia Ginzburg, Antonio Gramsci?
Nel maggio del 1994 viene nominato Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana e riceve anche la Medaglia d’Oro al Valore Civile con la motivazione “Console onorario in Ruanda, incurante dei rischi per la propria incolumità, si prodigava coraggiosamente per ricercare e porre in salvo i connazionali minacciati dalla violenza delle opposte fazioni. Con sprezzo del pericolo, nella infida situazione ambientale, non esitava a esporsi alla reazione dei belligeranti per proteggere la comunità italiana e favorirne l’evacuazione. Nobile esempio di grande altruismo e altissimo spirito di sacrificio”. Nel 2008 è inserito nel Giardino dei Giusti del Mondo di Padova, l’anno successivo gli è stato dedicato un albero anche nel Giardino dei Giusti di Milano.
Ricordiamo anche un altro italiano, Giorgio Perlasca: nell’inverno del 1944-1945 a Budapest riuscì da solo a salvare dallo sterminio nazista migliaia di ungheresi di religione ebraica inventandosi un ruolo, quello di Console spagnolo, lui che non era né diplomatico, né spagnolo. Tornato in Italia dopo la guerra, la sua storia non la racconta nemmeno in famiglia, perché riteneva d’aver fatto il proprio dovere. Se non fosse stato per alcune donne ebree ungheresi, da lui salvate in quel terribile inverno, la sua storia sarebbe sconosciuta. Furono loro, alla fine degli anni ’80, a pubblicare sul giornale della Comunità ebraica di Budapest un avviso di ricerca di un diplomatico spagnolo, Jorge Perlasca, che aveva salvato loro e tanti altri correligionari durante i mesi della persecuzione nazista. Alla fine ritrovarono un italiano di nome Giorgio Perlasca e anche il suo nome è a Gerusalemme, tra i Giusti fra le Nazioni, un albero a suo ricordo piantato sulle colline che circondano il Museo dello Yad Vashem. Anche Perlasca rispondeva: “Ma lei, avendone la possibilità, cosa avrebbe fatto, vedendo uomini, donne e bambini massacrati senza un motivo se non l’odio e la violenza?”.
Francesca Sammarco
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