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“Robe da Matti”, il manicomio nelle opere dei “pazzi”

di | 2021-12-17T18:44:35+01:00 19-12-2021 6:25|Arte, Sezione 6|0 Commenti

RIETI – “Robe da Matti”: nella sede di Palazzo Potenziani, la Fondazione Varrone ha allestito una mostra di opere d’arte e documentazione degli internati nel manicomio di Rieti, dal 1960 al 1980, curata da Manlio Paolocci, medico psichiatra in servizio al “San Francesco”, che la Fondazione ha incorniciato e catalogato. Un viaggio nella sofferenza alla scoperta dell’alter nell’alienius, che coesistono in noi, alla ricerca del talento e delle risorse degli internati nel manicomio di Rieti, concepito negli anni Trenta come una specie di città dei matti, lontana dalle mura. Ha continuato a funzionare fino agli anni Ottanta, come Ospedale Psichiatrico, per essere poi chiuso e trasformato solo nel 2000. Tanti, troppi anni, da quel lontano 1978, quando grazie a Franco Basaglia venne approvata la legge 180 (purtroppo morì troppo presto e la legge rimase “orfana di padre”, mai veramente riempita di fondi per case famiglia, assistenza domiciliare, consultori, in un limbo infinito che ha pesato sui malati e sulle famiglie, in un percorso troppo lungo verso una nuova psichiatria).

Neurologo e psichiatra, fu per lui drammatico l’impatto con la durezza della realtà del manicomio di Gorizia di cui fu direttore e comprese subito che bisognava reagire a questo orrore, impegnandosi in un radicale lavoro di trasformazione istituzionale. Aiutato da un gruppo di giovani psichiatri, cercò di seguire il modello della comunità terapeutica. “La follia esiste e come la ragione è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come la ragione, il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia” affermava Basaglia. Lo psichiatra e accademico Bruno Callieri sosteneva che “anche l’alienazione più radicata, anche la menomazione psichica più eclatante racchiudono in sé il compagno, il compagno di strada, cioè la persona umana“. Dunque “ricordare che questo è stato, si può e si deve” scrive il presidente della Fondazione Antonio D’Onofrio nel presentare la mostra.

Una mostra bella e allo stesso tempo terribile, da visitare entrando in silenzio nell’espressione della sofferenza umana, percorrendo quelle sale in punta di piedi, soffermandosi a lungo sulle opere in esposizione, tra le quali non potevano mancare le teche con gli strumenti usati per gli elettroshock, le bende e le fasce di contenzione, anche per i bambini, gli “stantuffi” per aprire le porte interne, il campionario di siringhe: una piccola per l’insulina intramuscolo, l’altra grande per le iniezioni di Glucagone, un sondino gastrico e vecchi aghi da sterilizzare con ebollitore. Nel 1935 Manfred Sakel ideò una cura (chiamiamola così, ma certamente non aiutava a guarire) praticata a cicli che comportavano l’induzione di un coma con iniezioni sempre crescenti di insulina e la sua interruzione, a distanza controllata di tempo, con l’introduzione di Glucagone endovena e di glucosio con sondino nasogastrico. Una pratica utilizzata dagli anni 50 ai 70, quando venne dismessa.

Fa rabbrividire la targa del 1932 per la disposizione dei locali e dei padiglioni: i tranquilli: uomini/donne, i semiagitati: uomini/donne, i tubercolotici, isolamento, deficienti, necroscopio, gli uffici amministrativi, infermieristici. E ci sta tutta la citazione di D’Onofrio dell’antologia di Spoon River, scritta da Edgar Lee Master e cantata da Fabrizio De André “Tu prova ad avere un mondo nel cuore/e non riesci ad esprimerlo con le parole/e la luce del giorno si divide la piazza/tra un villaggio che ride e lo scemo che passa”. E così Giacinta di Torri, Filippo di Leonessa, Gabriella di Amelia, Renato di Maglianello, Fernando di Frascati, Aldo di Terni e tanti altri… ”dormono/dormono/sulla collina”.

Non più numeri di matricola e foto segnaletiche, non più una comunità informe, confinata in uno spazio totalizzante in cui la follia era indotta, esasperata, circoscritta “come raccontano i documenti, le foto, gli scritti e gli oggetti dell’epoca esposti nella mostra permanente allestita presso la sede della direzione generale della Asl (inaugurata nel 2019)” scrive il direttore generale della Asl di Rieti Marinella D’Innocenzo. Nella mostra della Fondazione Varrone i disegni a matita, a pastello, anche con la penna blu, di Giovani Skira di Pola (ne ha realizzati 150, tra volti femminili, scene di caccia, calciatori, lotte tra animali, volti di santi e di Cristo con grande cura dei particolari), le nature morte di Fernando di Frascati (cesti riempiti di fiori e frutta, dettagliati con una pennellata fine e leggera), le suggestioni cubiste realizzate a olio e pastello da Aldo di Terni, la pittura a olio e gli acquarelli dalle tinte forti di Giacinta di Torri, tra cui una tartaruga sopra un asino, un gatto e due volpi alla stregua dei “Quattro musicanti di Brema”, la serie di disegni con il pennarello di Renato di Maglianello, le sue astruse invenzioni e singolari brevetti, le immagini a china del francese Pascal con i ricordi di scene di caccia, marine, tramonti, paesaggi lunari e le sue passate esperienze nella Legione straniera, le allucinazioni mistiche e volti di Gesù di Gabriella di Amelia a pastello e tempera, i filari di pioppi di Eugenio di Terni, con stradine di campagna e di ruscelli, vecchi casolari abbandonati, onde marine in burrasca, rami spogli, case innevate, le pitture naif del mondo contadino di Antonino, nato a Giuliana in provincia di Palermo.

Alcune opere sono riproduzioni di originali conservati gelosamente dai possessori come ricordi di un lontano passato, la maggior parte invece sono autentiche, donate da coloro che hanno voluto dare il proprio contributo, altre sono conservate dallo stesso Manlio Paolocci, il medico psichiatra che ha seguito l’atelier di pittura “Il pollaio” nato nel luglio del 1973 all’interno dell’Ospedale, nel quale gli internati hanno potuto liberare il proprio estro, con notevoli risultati. Nel dipinto ‘Al di là della siepe” del 1964 Paolocci raffigura Carlina, una ricoverata per catatonia, durante la sorveglianza esterna, nella posizione che assumeva anche per ore. Durante l’esecuzione del ritratto, Carlina lasciò improvvisamente la sua posizione per andare a baciare un occhio del dipinto, poi tornò a sedersi “in posa”, sorridente. Un varco comunicativo si era aperto attraverso la pittura.

Creatività, sensibilità, difficoltà nel socializzare o anche semplicemente di conformarsi, come non si conformò mai Alda Merini, fatta internare dal marito per disturbo bipolare. Di sé stessa disse “non sono una donna addomesticabile” e tra le sue frasi indimenticabili “La miglior vendetta? La felicità. Non c’è niente che faccia più impazzire la gente che vederti felice e io volevo solo essere felice”. E ancora “Mi hanno sempre giudicata come ‘strana’, o ‘diversa’, ma la sai una cosa? Mi è sempre piaciuto da morire; non sopporterei essere vista come il resto del mondo”.

E ogni tanto spunta ancora chi evoca la riapertura dei manicomi: la diversità dà ancora fastidio ed è veramente “Robe da matti”.

Francesca Sammarco

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