MILANO – Non è difficile immaginare il giovane William Shakespeare, appena diciottenne, scrivere le prime righe di un dramma che non avrebbe mai pensato di dover vivere nella realtà: quello della sua unione con Anne Hathaway. In un’Inghilterra elisabettiana ancora saldamente ancorata a convenzioni matrimoniali e dinamiche familiari in cui l’amore coniugale raramente trovava spazio, il loro matrimonio – avvenuto nel 1582 – ha sempre suscitato interrogativi, ipotesi, fraintendimenti. L’eco di quel vincolo si è riverberata nei secoli attraverso un’immagine consolidata e piuttosto cruda: quella di una moglie lasciata indietro, dimenticata tra le nebbie di Stratford-upon-Avon, mentre il marito, consacrato dal talento e dall’ambizione, conquistava la scena londinese.

William Shakespeare e Anne Hathaway
Ma come spesso accade, la storia, se osservata da vicino, si rivela più sfumata e sorprendente di quanto una narrazione tramandata possa far credere. Una lettera recentemente scoperta, attribuita a un conoscente del drammaturgo, ha incrinato le certezze su cui si era fondata la visione comune del matrimonio degli Shakespeare. Nel documento, datato all’inizio del XVII secolo, si fa esplicito riferimento a una corrispondenza regolare tra William e Anne, così come al sostegno economico da lui garantito alla famiglia rimasta a Stratford. Non si tratta di un’invenzione romanzesca, ma di un frammento d’archivio che – se confermato – ridefinisce profondamente il profilo privato dell’uomo dietro le opere.

William Shakespeare
Perché Shakespeare, l’inventore di amori immortali e tormentati, non avrebbe forse potuto permettersi, nel quotidiano, un rapporto affettivo più ordinario, ma non per questo meno reale? La narrazione dominante, quella che lo vuole lontano, quasi fuggiasco, si basa in gran parte sull’assenza: pochi riferimenti espliciti ad Anne nei documenti, nessuna lettera d’amore, nessun sonetto a lei dedicato, e quel lascito testamentario – il famigerato “second-best bed” – che per lungo tempo è stato letto come un atto di disprezzo, se non di vendetta silenziosa. Ma come spesso accade nella lettura retrospettiva della storia, l’assenza di prove dirette è diventata essa stessa una prova, una dimostrazione involontaria del distacco. Eppure, cosa accade quando una nuova prova compare, e smentisce quel silenzio interpretato come indifferenza?
La lettera, pur non essendo autografa, getta nuova luce sulla possibilità che William Shakespeare, pur diviso tra due mondi – il borgo natale e la metropoli teatrale – non avesse mai smesso di considerare Anne parte integrante della propria vita. Non più semplice figura laterale, prigioniera del tempo e del ruolo assegnatole dalla storiografia maschile, ma presenza costante, seppur discreta, nel cuore dell’uomo che ha saputo dare voce a ogni sfumatura dell’animo umano. La figura di Anne Hathaway, finora confinata ai margini, acquisisce così contorni più complessi, più vitali: non la moglie dimenticata, ma forse la compagna silenziosa di un’esistenza vissuta in bilico tra dovere e passione.

Anne Hathaway
A rafforzare questa nuova lettura intervengono anche i documenti catastali e le scritture notarili che attestano le ripetute acquisizioni immobiliari di Shakespeare a Stratford – in particolare l’acquisto di New Place, una delle residenze più prestigiose del borgo. Un investimento del genere, difficilmente giustificabile per un uomo che avesse davvero voltato le spalle alla propria famiglia, suggerisce invece un legame radicato, duraturo, e la volontà di costruire, anche a distanza, una dimora e una continuità. Se il teatro era la scena della sua gloria pubblica, Stratford era – forse – il palcoscenico privato, intimo, dove l’identità familiare non era solo ricordo, ma realtà parallela. E non è tutto. In un’epoca in cui le separazioni fisiche tra coniugi non erano affatto rare – basti pensare a mercanti, marinai, politici – il matrimonio non si definiva necessariamente attraverso la vicinanza quotidiana. L’assenza non implicava abbandono, così come la presenza non garantiva affetto. Le relazioni matrimoniali erano spesso improntate a una logica di gestione patrimoniale, di alleanze sociali, di stabilità economica.
Ma questo non significa che non vi fosse spazio per l’intimità, per la cura, per il sentimento. Che Shakespeare abbia potuto vivere lontano senza recidere il filo che lo legava ad Anne non solo è plausibile, ma trova ora conforto in un documento che aggiunge voce a ciò che finora era rimasto muto. La famosa “second-best bed”, tanto discussa quanto fraintesa, merita infine una riflessione ulteriore. Nella cultura elisabettiana, la miglior camera da letto era spesso riservata agli ospiti, mentre il secondo letto era quello nuziale, usato dalla coppia nel corso della vita coniugale. Il lascito, dunque, potrebbe celare un intento affettivo, persino simbolico: un modo per riconsegnare ad Anne il luogo della loro intimità. Oppure, come ipotizzato da alcuni studiosi, si trattava semplicemente di un’aggiunta a quanto le spettava per legge, in un sistema in cui i beni coniugali erano comunque trasmessi alla vedova.
L’emergere di questo documento riporta quindi la questione su un piano più umano e meno romanzesco. Non si tratta di riabilitare Shakespeare come marito modello, né di costruire un’ideale storia d’amore postuma. Si tratta, più semplicemente, di riconoscere la possibilità che le vite degli altri – anche quelle dei grandi del passato – siano più complesse di quanto le narrazioni semplificate ci abbiano abituati a credere. La scoperta della lettera impone uno sguardo nuovo, capace di cogliere la distanza tra mito e realtà, tra leggenda biografica e vissuto quotidiano.
La vicenda di William e Anne, riletta oggi, restituisce un’immagine più sfaccettata di entrambi. Lui, uomo diviso tra la necessità di affermarsi e il desiderio di non perdere sé stesso. Lei, donna rimasta nell’ombra per troppo tempo, ma che potrebbe aver avuto un ruolo più attivo e decisivo nella vita del marito di quanto la storia le abbia concesso. Non è forse questa la vera lezione che il tempo ci offre? Che dietro ogni silenzio, ogni omissione, ogni lacuna documentale, può celarsi una storia diversa, più intima, più autentica.
Se il teatro ha insegnato qualcosa a Shakespeare, è che ogni personaggio – anche il più marginale – ha una voce, un motivo, un passato. E che spesso, ciò che non si dice è altrettanto importante di ciò che viene scritto. Oggi, quella voce silenziata per secoli sembra tornare a farsi sentire. E forse, nel riascoltarla, possiamo finalmente riscrivere una parte della storia. Non quella dei grandi drammi, ma quella, più fragile e reale, delle vite che si intrecciano nel tempo.
Ivana Tuzi
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