NAPOLI – È tempo di riassunti, è tempo di ricordi, è tempo di speranza e di attesa. Ognuno in qualche modo tira le somme. Quanti ricordi, quanti volti, quanti gesti. Volti di colleghi, di familiari, di amici che non ci sono più, di vuoti. D’altro canto un anno pieno, una vita piena per fortuna di cose belle e di altre un po’ meno. Per tutto questo a fine anno si recita il Te Deum che è la forma più alta di consapevolezza di ciò che è accaduto in 365 giorni. Si ha la percezione sottile ma allo stesso tempo potente di ciò che è trascorso, di ciò che è successo; non tanto per ciò che si è fatto. Una percezione che il tempo, la vita inesorabilmente passamo e ti accorgi che oltre le tue ansie e preoccupazioni nelle cose fatte c’è qualcosa o qualcuno che guida le trame del tuo essere. Una percezione sottile e potente che per quanto ti possa sforzare a condurre le cose a tuo piacimento, tutto si svolge secondo un disegno che tu non sai. Una forma di impotenza docile che rende sereni. Ti puoi ingarbugliare quanto vuoi ma ti ritrovi quasi inerme a progettare dettagli che vanno per lidi non tuoi.
In una lettera di qualche tempo fa don Luigi Giussani scriveva: «Davanti alla mia finestra ho piante che sono ancora tutte distrutte dal gelo e dal freddo dell’inverno. Osservandole pensavo che tutte le cose, tutte le nostre cose andrebbero a finire così se non ci fosse quella forza, quella potenza creatrice che ridesta altre piante davanti a me con foglie verdi e nuove». E continuava più avanti: «In questi giorni tutto sta rinascendo ma se un uomo non avesse mai visto la primavera e fosse nato e vissuto e conoscesse soltanto l’aridità dell’inverno, potrebbe immaginare come, dal di dentro, da questo “di dentro” strano e misterioso tutte le cose possono cambiare? Non riuscirebbe a immaginarlo».
Solo la percezione di un Bene più grande permette di esserne lieto altrimenti si corre il rischio di volersi ribellare ad un evolversi delle cose in cui credi di esserne l’autore e il pilota.
Nella preghiera del Te Deum è contenuta una saggezza profonda, quella saggezza che ci fa dire che, nonostante tutto, c’è del bene nel mondo, e questo bene è destinato a vincere grazie a Dio. E ce lo ricordava anche Tolkien quando fa dire a Sam nel bellissimo dialogo con Frodo nel Signore degli anelli che c’è del buono in questo mondo ed è giusto combattere per questo. Certo, a volte è difficile cogliere questa profonda realtà, poiché il male fa più rumore del bene; oltre alla permanenza in uno stato di precarietà virale, omicidi efferati, violenze diffuse, gravi ingiustizie fanno tremendamente notizia; al contrario, come sempre purtroppo, i gesti di amore e di servizio, la fatica quotidiana sopportata con fedeltà e pazienza rimangono spesso in ombra, non emergono.
Senza la speranza di un “per sempre”, tutto nella vita appare più breve e, ultimamente, più insopportabile e tragico. Il dolore diviene censura e lo scopo del vivere coincide con il piacere o, detto diversamente, con lo star bene. E così una condizione auspicabile ma certamente non essenziale della vita (appunto, lo star bene) ne diviene il senso. E il metro di giudizio, con il quale l’uomo stabilisce la maggiore o minore dignità del vivere, diventa dominante e riduttivo. Che il nuovo anno cominci con auspici dei più regali, con prospettive di bene che sovrastino lo sguardo riduttivo sulle cose, che sommergano le parzialità e le banali considerazioni sulla vita.
“…voglio vivere ogni giorno con ottimismo e bontà, chiudi le mie orecchie a ogni falsità, le mie labbra alle parole bugiarde ed egoiste o in grado di ferire, apri invece il mio essere a tutto quello che è buono, così che il mio spirito si riempia solo di benedizioni e lo sparga ad ogni mio passo”. (Arley Tuberqui, contadino sudamericano).
Innocenzo Calzone
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