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Marcello Castrichini e i segreti del restauro

di | 2024-12-29T00:49:24+01:00 29-12-2024 0:05|Personaggi, Sezione 2|0 Commenti

PERUGIA – Restauratore resta una definizione che gli va decisamente stretta. Marcello Castrichini è qualcosa di più e di meglio: un investigatore, un Poirot, un Maigret, un Marlowe, che indaga e svela i misteri che ogni opera contiene e porta alla luce i segreti delle tecniche pittoriche o di scultura dei vari artisti. Nella sua lunga e meritoria carriera (è nato e vive a Todi) – svolta non solo in Umbria, ma pure a Mantova, a Roma a Parma – Castrichini ha ottenuto riconoscimenti a livello nazionale e internazionale con lavori, studi, ricerche che hanno illuminato lunghi tratti della storia dell’arte italiana.

Marcello Castrichini

Il restauratore-detective, che interviene con la sua azienda (“Arte e restauro”), ha dato luogo ad una vera e propria “scuola” e la dirige: con lui opera la moglie, Leonilde Dominici e, per una ventina di anni, i due figli Monica e Luca, entrambi con lauree relative al campo delle arti figurative (ora insegnanti di storia dell’arte allo Jacopone di Todi).

Da cosa nasce questa sua passione per il restauro?

“Da studente dell’Accademia di Belle e Arti ‘Bernardino di Betto’ di Perugia seguivo i corsi di pittura. L’illuminazione la trovai con il professor Fumi che mi aprì gli occhi sul restauro, che indaga sul come fare pittura e sul modo di stendere gli affreschi. Il restauro era una materia facoltativa ma io, che sono stato sempre curioso, tanto da frequentare le botteghe di falegnami ed ebanisti di Todi come Zoccoli e Gentili e fabbri quali Giornelli, mi appassionai pian piano…”.

La Basilica di San Giovanni a Parma

Come approfondì questa delicata attività?

“Sarò riconoscente per tutta la vita al soprintendente Francesco Santi che mi diede una lettera di presentazione per seguire i lavori di recupero delle opere d’arte dopo l’alluvione di Firenze nella Fortezza da Basso e, successivamente, per l’ICR (Istituto Centrale per il Restauro) dove assistetti ai lavori di personaggi di alto profilo quali Paolo Mora, Laura Bordoni, Giovanni Urbani…”.

Il suo primo intervento?

“A Todi con il distacco di un affresco di una Madonna opera di Nicola di Vannuccio. Quindi di una Maddalena e due ancelle nella chiesetta de L’Ospedaletto di Vasciano dipinto dello Spagna, ora esposta nella navata di destra del Duomo tuderte, poi un lavoro di Piermatteo d’Amelia a Tuscolano…”.

Cosa è indispensabile per condurre in porto al meglio questo difficile, complesso compito?

Affresco nella Basilica di San Giovanni a Parma

“Prudenza e studio. Ogni restauro rappresenta un trauma per l’opera d’arte, quindi bisogna intervenire solo e soltanto in caso di urgenza e di necessità vera. Il lavoro ben riuscito? Se non ci si accorge, osservandolo attentamente, del ritocco, è fatto bene. Altrimenti, no… Prima di iniziare occorre documentarsi al massimo sull’artista e sull’opera senza accontentarsi di quello che scrivono e riportano storici e critici d’arte, ma entrando negli archivi a vedere, se ci sono, le fonti dirette, primarie. Studiare la tecnica di ogni artista risulta indispensabile: è come riconoscere la firma di una persona su un documento o le sue impronte digitali”. 

A Mantova lei ha curato il ciclo del Pisanello a palazzo Ducale…

Affresco del Pisanello a Palazzo Ducale a Mantova

“Un lungo lavoro, ma ricco di soddisfazioni. Duecento metri quadrati di frammenti… prima di affrontare gli affreschi ritoccati con oro e argento, ho compulsato tutte le giornate di lavoro dell’artista. Dai simboli (il vello d’oro ed il bastone del comando) sono riuscito a dare un nome certo ed indiscutibile al cavaliere misterioso ritratto: Francesco Gonzaga, fondatore del potere della casata e anche di un secondo cavaliere, Gianfrancesco, figlio del capostipite”.

A Roma, in Santa Bibiana, risolse alcuni enigmi relativi alle opere del Ciambelli, del Bernini e di Piero da Cortona – come dire i fondatori del Barocco – che gli artisti crearono su commissione di papa Urbano VIII, un Barberini…

“In vista della mostra su Gian Lorenzo Bernini del 1999 alle opere dello scultore venne tolta via quella che, agli altri, era apparsa una patina giallastra, considerata conseguenza del tempo trascorso e di altri agenti concomitanti. Scoprii che, al contrario, quell’effetto era stato creato a bella posta, volontariamente dall’artista. Quei pigmenti facevano percepire più nettamente, che non sul nudo marmo di Carrara color bianco zucchero, i vari particolari della scultura. Una innovativa tecnica di finitura, insomma”.

Ne scaturì una polemica, nel mondo dell’arte, particolarmente intensa, se non feroce…

“Le racconto solo un episodio. Il professor Claudio Strinati, che conoscevo e stimavo, ricambiato, si precipitò nel cantiere di Santa Bibiana e mi apostrofò così: ‘Castrichì, che bischerata hai tirato fuori con la storia della patina…?’ Lo accompagnai all’interno e gli mostrai i risultati della mia ricerca. Rimase a bocca aperta. E mi diede ragione. Ora tutti gli studiosi convengono sulla bontà della mia tesi. E la ‘patina’ non si toglie più, com’è giusto che sia”.

Da anni, lei sta lavorando a Parma nella basilica di San Giovanni dell’omonimo monastero benedettino e, risulta da giornali e riviste specializzate, lei ha messo in luce particolari definiti clamorosi…

“In questa chiesa hanno lavorato Michelangelo Anselmi, un giovanissimo Parmigianino (al secolo Girolamo Francesco Maria Mazzola) e il Correggio (all’anagrafe Antonio Allegri), che io definisco immenso. La cosiddetta Scuola di Parma’, anche perché oltre ai tre lavorarono qui diversi loro discepoli. Il Parmigianino, in una delle cappelle da lui dipinte, utilizzò una tecnica simile a quella del Correggio. La critica si chiedeva come avesse fatto il Mazzola ad anticipare il pittore emiliano. Ebbene, dall’analisi di alcuni documenti ho evinto che l’Allegri arrivò prima di quanto si fosse creduto sino ad allora a Parma. E, condizionato dall’aver visto e osservato Raffaello a Roma, riversò le sue conoscenze negli affreschi delle cappelle a lui affidate. Il Parmigianino, con l’occhio lungo, sfruttò semplicemente le novità introdotte dal Correggio”.

Da cosa dipende l’incredibile luce, la luminosità degli affreschi del Correggio?

“Questi artisti, prima di rivelarsi tali, possedevano una grande qualità di artigiani. In effetti entrando in chiesa anche al tramonto o di notte, questa luminosità appare evidente. Intanto il Correggio aveva studiato la provenienza della luce esterna, per cui nella parete della navata est aveva affrescato come se si fosse a mezzogiorno, mentre sulla parete ovest, ha evidenziato l’ombra delle figure… L’aspetto ancora più significativo, tuttavia, è che alla base degli affreschi aveva spalmato molta calce e sabbia, utilizzata quest’ultima, per il riverbero della luce e poi aveva rifinito il tutto a secco con un pigmento a base di tuorlo d’uovo. Risultato che ho condiviso anche in collaborazione e col contributo dell’università di Parma. Non a caso molti critici affermano che Raffaello primeggia nel disegno, Correggio nel colore”.

L’angioletto che compare sulla stemma della sua azienda di chi è? 

“Dell’Anselmi. Trattiene la colomba che rappresenta l’anima di Santa Scolastica al fine di ritardarne la morte nell’attesa del fratello, San Benedetto. Ma l’angelo più suggestivo lo ha scoperto con cocciutaggine mia moglie. Ed è forse uno dei 12 angeli dipinti – i lavori sono tuttora in corso – dal Correggio. Andò così. Mi chiamò mentre mi trovavo in alto sopra un ponteggio per farmi vedere una macchia scura che era emersa durante la pulitura. ‘È sporco… Andrà via ripulendolo’, le risposi io sottovalutando il ritrovamento. Dopo un’ora mi richiamò: ‘Vieni a vedere…’. Scesi un poco contrariato, confesso, ma stavolta non era una macchia, ma la testa ricciuta di un angelo”.

Elio Clero Bertoldi

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