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Luigi Calabresi, uomo di legge e di fede

di | 2022-05-20T19:46:12+02:00 22-5-2022 6:10|Personaggi, Sezione 3|0 Commenti

MILANO – E’ davvero particolare l’emozione che si prova quando si osservano gli occhi (pieni di lacrime e di orgoglio) degli uomini e delle donne della Polizia di Stato che hanno ricordato il commissario Luigi Calabresi a 50 anni dal suo omicidio (avvenuto il 17 maggio 1972) in una cerimonia solenne presieduta dal’arcivescovo di Milano Mario Enrico Delpini, alla presenza della moglie Gemma Capra e dei suoi tre figli, del Capo della Polizia Lamberto Giannini, del questore Giuseppe Petronzi e del prefetto Renato Saccone.

Luigi Calabresi, nato a Roma il 14 novembre 1937, fu assassinato a Milano in via Francesco Cherubini, all’angolo con via Mario Pagano, nei pressi della sua abitazione, mentre si avviava in ufficio: “Sempre col sorriso” come ha ricordato la signora Gemma in un commovente intervento. Il commissario Calabresi fu ucciso brutalmente da un commando di sicari che gli spararono alle spalle. Aveva 34 anni e lasciò la moglie incinta e due figli: Mario, giornalista e scrittore che ha raccontato la storia della sua famiglia nel libro “Spingendo la notte più in là”, e Paolo. Il terzogenito, Luigi, nascerà pochi mesi dopo la sua morte. Durante la celebrazione eucaristica, in piazza San Marco a Milano, Mons. Delpini sottolinea che “i semi del bene e semi del male insiti nell’uomo rappresentano bontà d’animo e amore che si contrappongono alla malvagità delle azioni dell’uomo stesso”.

La famiglia del commissario Luigi Calabresi: la moglie Gemma con i figli Mario, Paolo e Luigi

Ed è proprio di bene e male, umanità e malvagità che sono intrise le pagine di cronaca nera che inizia qualche anno prima del ’72, quando Luigi Calabresi, romano di famiglia medio-borghese, si laureò in giurisprudenza nel 1964 all’Università  “La Sapienza” con una tesi sulla mafia siciliana. Entrò giovanissimo nel movimento cristiano Oasi, fondato dal padre gesuita Virginio Rotondi. Alla carriera forense preferì quella nella polizia, spiegando agli amici di non sentire “la vocazione del magistrato né dell’avvocato». L’anno seguente, nel 1965, vinse il concorso per vicecommissario di pubblica sicurezza e quindi frequentò il corso di formazione nell’Istituto superiore di polizia, per prendere poi servizio a Milano. Calabresi seguì numerose indagini: da aprile 1969 fu incaricato di accertare gli attentati dinamitardi avvenuti nel padiglione della FIAT alla Fiera Campionaria e alla stazione centrale. Svolse le indagini entro l’area anarchica e 15 esponenti della sinistra extraparlamentare furono fermati e arrestati.

A novembre 1969, ai funerali dell’agente Antonio Annarumma, dovette intervenire in difesa di Mario Capanna, sottraendolo a un tentativo di pestaggio da parte di agenti incolleriti dalla presenza del leader della sinistra extraparlamentare alle esequie. A Milano fu assegnato all’ufficio politico della Questura e incaricato di sorvegliare e indagare gli ambienti della sinistra extraparlamentare, che cominciava allora a prendere consistenza. Si trattava dell’area politica entro cui avrebbe svolto le sue indagini nel corso della sua breve carriera. Nel 1967 ottenne dalla Questura di Como, su richiesta degli anarchici, il permesso per un campeggio anarchico a Colico, e durante questi contatti conobbe Giuseppe Pinelli. Nella notte del 16 novembre 1967 guidò le forze della polizia nello sgombero dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, occupata da poche ore dagli studenti guidati da Capanna: questa occupazione fu il primo atto di lotta studentesca che dette inizio alla stagione della contestazione nota a Milano come Sessantotto.

Nel 1968 diventò commissario capo, trovandosi anche a dirigere le cariche dei reparti della polizia durante gli scontri per il mantenimento dell’ordine pubblico nel corso di manifestazioni di protesta per le vie milanesi; la sua carriera proseguirà fino alla carica di vice-capo dell’Ufficio politico della Questura di Milano. Il 12 dicembre 1969 la strage di piazza Fontana, a Milano: cinque bombe provocarono la morte di 17 persone e il ferimento di altre 88. Calabresi, che aveva già in corso inchieste su attentati dinamitardi, venne incaricato delle indagini e divenne quindi noto all’opinione pubblica. Dopo quel drammatico evento (che segnò in Italia l’avvio della stagione delle stragi), Giuseppe Pinelli, già noto a Calabresi per via di indagini precedenti nell’ambiente degli anarchici, fu convocato in questura insieme ad altri 84 sospettati e tenuto illegalmente in stato di fermo per più di due giorni per essere interrogato.

Pinelli precipitò alle 23:57 del 15 dicembre dalla finestra dell’ufficio del commissario, al quarto piano, dell’edificio della Questura di Milano. La prima versione, fornita del questore Marcello Guida durante una conferenza stampa (alla quale parteciparono anche Calabresi e Antonino Allegra, responsabile dell’Ufficio politico) sosteneva che Pinelli si era suicidato in quanto implicato negli attentati e senza un alibi valido. Tale versione fu poi rivista quando l’alibi di Pinelli, al contrario di quanto affermato inizialmente, si rivelò veritiero. Mentre gli inquirenti sostenevano la tesi del suicidio, le formazioni extraparlamentari di sinistra (sostenute anche da ambienti giornalistici) accusarono le forze dell’ordine di aver ucciso Pinelli gettandolo dalla finestra durante l’interrogatorio. In base a questa tesi, poi smentita da due istruttorie della magistratura, Calabresi divenne il colpevole, anche se le successive inchieste dimostrarono che il commissario non era presente nella stanza dell’interrogatorio al momento della caduta. Il poliziotto divenne il bersaglio di una martellante campagna di denuncia.

L’inchiesta della magistratura sulla morte di Pinelli fu condotta dal giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio e si concluse il 27 ottobre 1975 con una sentenza assolutoria per Calabresi che fu completamente scagionato. Secondo i giudici, la caduta avvenne per “l’improvvisa alterazione del centro di equilibrio”, la morte fu definita “accidentale”, escludendo quindi sia il suicidio che l’omicidio e accertando peraltro che Calabresi non si trovava neppure nella stanza al momento.

L’omicidio Calabresi fu il primo delitto eseguito con la stessa tecnica utilizzata negli anni successivi dalle Brigate Rosse e da altri gruppi estremisti sia di destra che di sinistra. Nel 1988 Leonardo Marino, un ex militante di Lotta Continua, sì pentì e confessò di aver partecipato insieme ad Ovidio Bompressi all’assassinio del commissario, indicando i mandanti del delitto in Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, anch’essi in precedenza militanti e ai vertici di Lotta Continua.

Marino è stato condannato a 11 anni di reclusione (pena poi prescritta grazie alla attenuanti generiche), mentre Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri a 22 anni.

Luigi Calabresi, uomo di fede e di legge, sepolto nel Cimitero Maggiore di Milano, ha insegnato agli uomini e alle donne della Polizia di Stato, che indossare una divisa è un’opportunità di vivere e stare accanto alla gente con grandi ideali di giustizia e verità.

Claudia Gaetani

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